La passione degli studenti e la scuola

mercoledì 8 settembre 2021


La prima campanella dell’anno scolastico non è ancora suonata e già fiumi d’inchiostro zeppi di retorica inondano l’infosfera. Una vera e propria competizione al miglior buon auspicio, alla migliore citazione, alla migliore intenzione di iniziare l’attività scolastica all’insegna del solito ritornello del “suscitare stupore” e “dell’innescare meraviglia” negli studenti per coinvolgerli, non annoiarli, risvegliare in loro la passione per il sapere che un docente deve avere e saper trasmettere durante le ore di lezione. Orbene, nella misura in cui si ha di fronte il quadretto di una scuola in cui gli studenti si limitano ad imparare – magari solo mnemonicamente – una serie di informazioni e contenuti disciplinari che il docente snocciola dall’alto del proprio sapere cattedratico, va da sé che l’invito a suscitare stupore e innescare passione non può che trovare un consenso pressoché unanime. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Siamo sicuri che gli studenti non abbiano stupore e passione da vendere ancor prima di metter piede in un’aula scolastica? Siamo sicuri che gli studenti non sembrino “apatici” proprio perché vertiginosamente pieni di passione e stupore? E siamo sicuri che i docenti, non solo non debbano suscitarli, ma al contrario insegnar loro a conviverci o, ancor meglio, a incanalarli?

Certo se con “stupore” ci raffiguriamo lo scienziato ottocentesco che, felice nel proprio laboratorio, contribuisce asetticamente al progresso o se con “passione” immaginiamo uno scrittore che, dal proprio studio, da vita al nuovo romanzo del secolo, sicuramente a tutte quelle domande è necessario rispondere negativamente e seguire silenziosamente le indicazioni di tanta didattica e di tanta pedagogia che per decenni si sono concentrate sul “Giovannino” di rousseauiana memoria. Ma siamo sicuri che lo “stupore” e la “passione” siano gli elementi di questo quadretto edulcorato che ogni anno viene dipinto da molti?

Sono gli stessi Platone e Aristotele che per primi indicano nello stupore l’origine della filosofia e del sapere in generale. Tuttavia, la parola italiana “stupore” (o “meraviglia”) non rende affatto ciò che già i greci sapevano ovvero che il sapere sorge dal “thaumàzein. Una parola, questa, che andrebbe tradotta con “stupore angosciato” poiché non è la neutrale meraviglia di chi scorge all’improvviso un amorevole paesaggio di fronte a sé, ma è lo stupore angosciato di chi non sa e senza possedere questo sapere è in grave pericolo. E proprio perché deve allontanare da sé l’angoscia e il pericolo è spinto a sapere ciò che ignora. E tutti ormai – i giovani studenti più di ogni altro – condividono l’opinione che non esiste più alcuna forma di sapere assoluto che sia capace di metterci al riparo dallo “stupore angosciato” causato dal non sapere. Pur se non hanno mai letto una riga di Leopardi e di Nietzsche è scritto a caratteri cubitali nei loro cuori che “Dio è morto”, che non esiste nessun porto sicuro cui attraccare la nave della propria esistenza.

Ogni studente siede tra i banchi di scuola con il cuore e la mente pieni zeppi di “thaumàzein”, di stupore angosciato. E se è vero che un docente che si cela dietro le informazioni della propria disciplina e si arrocca sulla propria cattedra, lascia andar via i ragazzi nello stesso modo i cui li ha fatti entrare, poiché tutto ciò che ha trasmesso loro sono mere istruzioni, che un algoritmo a breve trasmetterà meglio e a minor costo, è anche vero che non sarà chi li invita a stupirsi che potrà insegnar loro qualcosa che già non sanno. I ragazzi sono stupiti, sono tremendamente stupiti – a maggior ragione oggi che le scienze, l’ultimo baluardo di ipotetiche certezze, mostrano il loro lato incerto e angosciante.

Non si tratta di riuscire a farli “stupire”, si tratta di fargli afferrare e comprendere lo stupore, di coglierne le motivazioni profonde. Non v’è nulla di fuori dall’ordinario nello stupore e nell’angoscia, riuscire a venirne fuori con il sapere è l’ardua impresa che per la cultura contemporanea (quella che si trova nei manuali del quarto e del quinto anno delle scuole superiori) è addirittura impossibile. Per la “passione” vale il medesimo discorso. Spesso e volentieri ci culliamo nell’immagine hobbistica delle passioni: “mio figlio ha la passione per i numeri” e “mio figlio ha la passione per i francobolli” sono espressioni ormai equivalenti, poiché si tende a considerare la passione come qualcosa di scelto o al limite un talento innato che è sufficiente coltivare per raggiungere i propri obiettivi.

Anche in questo caso ci dimentichiamo che “passione” viene dal greco “pàthos”, il cui significato semplice è il dolore, ma che più dettagliatamente rimanda a “ciò che si subisce o patisce” e per questo può anche significare “sciagura, disgrazia” e che, di conseguenza, provoca “turbamento”. Le aule scolastiche, in questo senso, sono stracolme di ragazzi “appassionati”, di ragazzi turbati e angosciati da una realtà che non riescono a comprendere e che appare loro come una calamità da cui non sanno difendersi e da cui per lo più fuggono nelle più disparate direzioni. Quando un docente entra in classe, dunque, non si tratta di accendere “passione” e “stupore”, ve n’è fin troppo, quanto piuttosto di insegnar loro a ri-conoscerli anzitutto e a governarli ed oltrepassarli poi. Dante, Euripide, Galilei, Kant, Einstein e via discorrendo non sono stati altro che questo: esseri umani angosciati e pieni di domande a cui nessuno riusciva a rispondere - compresi i manuali e i professori dell’epoca - che hanno dovuto intraprendere un cammino doloroso che li ha portati oltre, cercatori di verità che non si sono arresi allo “stupore” e alla “passione” (filo-sofi, in senso letterale). Non è facile, ma è il minimo che è necessario tentare di fare quando si varca la soglia di un’aula.

(*) Docente del Liceo Classico “Gabriele D’Annunzio” di Pescara


di Claudio Amicantonio (*)