Non trasformiamo la vita in un Museo delle cere

giovedì 5 agosto 2021


Il direttore d’orchestra, il Maestro Riccardo Muti, è persona stimabile non soltanto come interprete ed esecutore dei testi musicali ma, ripeto, come persona. Ama palesare le sue opinioni con una certa ridondanza affermativa, convinto e sentito estimatore della civiltà, della cultura, mondiale, europea e quella italiana in particolare, ha rivalutato la scuola napoletana del XVIII secolo, opere del XIX secolo poco eseguite, anche di Giuseppe Verdi, del quale è appassionatissimo. Inevitabilmente, è fedelissimo ai testi, non apprezza i modernismi dei registi, sovente lunatici e scemi, in alcune esecuzioni, a mia conoscenza, si avvicina ai direttori degli Anni Trenta e Quaranta o ancora prima. Non entro nei casi specifici, ma ho memoria di una Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven colossale, di piena potenza e flusso o scorrente malinconia fuggitiva; una lontana esecuzione di Aleksandr Nevskij di Sergej Prokof'ev, con percussioni poderose; un Don Pasquale di Gaetano Donizetti, brioso, giovanile e senile. Solo un granello, Mozart, Verdi, Mahler, Schumann.

Non è di Riccardo Muti, direttore che intendo narrare. Una bella occasione il G20 dedicato alla cultura, a Roma. Muti ha eseguito La Sinfonia dal Nuovo Mondo di Antonín Dvořák, conosciutissima, melodiosa, di sicuro con intarsi etnici e qualche tratto vigoroso che Muti interpreta di solito benissimo, laddove i momenti mesti li rende quasi cameristici, è il suo modo di intendere, la “coloritura”. Ci sarebbe da discutere. Finita, applaudita, la partitura, piace a Muti dire qualcosa, erano presenti autorità dei venti paesi, e del nostro il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il ministro della Cultura, e in tono e linguaggio reciso Muti ha dichiarato quanto sia indispensabile la cultura che trova nell’armonia musicale l’esemplarità dell’armonia sociale.

Noi uomini siamo cultura e natura, ossia civiltà, il che ci distingue dagli animali, se tranciamo tale aspetto dell’umanità, storico, non creiamo civiltà, possiamo fondare relazioni eccellenti di solidarietà, di amore, e devozione, presenti e possenti anche tra gli animali, ma non vi è la concettualità espressiva che è tipica ed esclusiva dell’uomo, se questa concettualità espressiva decade, l’arte, insomma, più che la sola conoscenza, vivremmo soltanto per sopravvivere ma la vita da uomini cesserebbe. Ora Riccado Muti, in una intervista al Corriere della Sera, giunge a dire che ha mancante la voglia di vivere! C’è da capire, stiamo al livello più derelitto della possibilità di espressione si che un uomo che è tale perché congiunge natura e cultura, se spazza via la cultura, non ha più la vita intera, e che vive a fare? Credo che raramente gli uomini di cultura siano sprofondati in forme oppressive-depressive come attualmente. Per definire ulteriormente un cenno: il direttore del Museo Cappella Sansevero, Fabrizio Masucci, si è dimesso non accettando i nuovi rigorismi (Carta verde) che ritiene annientino i musei già falcidiati e che tuttavia trovavano possibilità di reggere con tutte le cautele note.

È una missiva dolentissima, di una persona che sente asfissiare l’arte senza alcuna ragion d’essere fondata, la Carta verde, ha scopi, dice giustamente Masucci, di costringere alla vaccinazione ma non favorisce la sicurezza. E che queste burocrazie recano solo o soprattutto danni culturali, ostacoli, e scontro sociale lo si coglie in modo tragico dalla dichiarazione di scienziati israeliani pubblicata dal Telegraph del 16 luglio scorso. Dividere i cittadini in vaccinati e non vaccinati, ha per effetto la persecuzione dei non vaccinati, l’esclusione, per dirla alla esperienza ebraica, la ghettizzazione. I genitori contro i professori non vaccinati, gli operai contro il compagno non vaccinato. Animalesco. Ci contagiamo da vaccinati e da non vaccinati. È l’estrema risorsa degli incapaci prepotenti indicare un nemico da colpevolizzare. E disgraziatamente arriveremo forse anche noi a questa regressione primitiva. Ma come, hanno detto che raggiunta una soglia non vi era rischio (immunità di comunità) e ora che si vuole, l’eterna vaccinazione? La terza dose.

 Diceva Arthur Schopenhauer che l’arte sospende il male di vivere, la coscienza della vita nel suo accadere mortale e difettoso, sì che immedesimarsi nell’arte ci fa dimenticare le tempeste della vita. In termini pratici: riacquistiamo amore della vita se ci immedesimiamo nell’arte. Dimentichiamo l’esistenza nuda. Friedrich Nietzsche la riteneva una prosecuzione estremizzata della vitalità. Quando stavo all’Ospedale Spallanzani, malatissimo, ringrazio il magnifico impegno e tuttavia devo anche ad una raccolta di scrittori latini la ritrovata voglia di vivere. Solo un nichilista di borgata potrebbe rinunciare a Lucrezio, Ovidio, Lucano, e alla disseminata bellezza che uomini degni hanno concepito e forgiato. Siamo nati per vivere non per sopravvivere. Questo ritorno alla caverna è realmente bestiale. Chi ha dedicato alla cultura la vita non riesce a comprendere come non si comprenda di potenziare la cultura, è una immunizzazione contro ogni malattia, ammirare vale continuare a voler vivere. Oltre ai farmaci vi è il farmaco dell’arte (e della cultura). Sotto i colpi della malattia e degli ostacoli alle attività espressive l’uomo declina inaridito. È sperimentabile, l’arte attrae alla vita. Può esistere fossile umano che ad ascoltare, per dire, Il tramonto della luna, non abbia necessità di riascoltarla. Ecco, la ripetizione della vita, l’arte inclina a riascoltare, rivedere, rileggere ossia continuare la vita. Quindi è la nemica spietata della malattia e della morte. L’arte è l’eterno ritorno della vita. Spalancate musei, sale di concerti teatri, sì, sì, con tutti gli accorgimenti, ma accorgimenti per vivere non per legarci in casa. Non trasformiamo la vita in un Museo delle cere!


di Antonio Saccà