I paralipomeni della democrazia

martedì 22 giugno 2021


Sono passati 15 lunghissimi mesi da quando, una dopo l’altra, le nostre libertà democratiche hanno cominciato a essere progressivamente sospese o dismesse. Pochi si stupiscono che gli italiani, intorpiditi dal terrorismo sulla pandemia e dalle lunghe restrizioni, abbiano atteso la parziale riapertura per reclamare le libertà di cui sono stati deprivati. In questi mesi, le voci dissonanti e il dissenso sono stati iscritti nell’infamante categoria delle fake news o silenziati dall’ostracismo dei media.

Inizialmente – e avevamo concordato – era l’imminente tracollo del sistema ospedaliero che ci aveva convinti della necessità delle restrizioni. I mesi sottratti alle nostre libertà sarebbero dovuti servire a riorganizzare la macchina della sanità pubblica. A un anno di distanza ci si è accorti che il sistema continuava, più o meno, tale e quale. Oltre a cadere per il coronavirus, migliaia e migliaia morivano di altre patologie non più curate.

Il lockdown doveva essere una misura emergenziale, ossia temporanea e contingente. Da straordinario, il regime emergenziale si è trasformato in ordinario: estendibile fino al termine dell’anno e poi, chissà, procrastinabile ad libitum.

Molte misure ci sembrarono, già da allora, assolutamente irrazionali: era un virus respiratorio che si diffondeva in luoghi chiusi: perché inseguire con i droni i runner sulle spiagge spopolate o chi passeggiava nelle strade e negli orari deserti del coprifuoco?

Come nella Costantinopoli assediata si discettava su marginali questioni dottrinarie, nei corridoi del palazzo si dibatte, oggi, se e quando esimere i cittadini dall’obbligo – quasi unicamente nostrano – della mascherina all’aperto. Anche di fronte all’evidenza che, all’aria aperta, il contagio è, praticamente, solo teorico, qualcuno insiste che l’orpello serva comunque a tener desto il senso di allarme e la cautela. Un simbolo insomma, un “memento mori”. Ma, soprattutto, un bavaglio...

Le nostre libertà sono state consegnate a comitati di esperti – litigiosi e autoreferenziali, finora ignoti al pubblico – sovente in contraddizione l’uno con l’altro e, talvolta, anche con se stessi.

Per un intero, lunghissimo anno migliaia di attività commerciali – anche esercizi all’aperto – sono state obbligate alla chiusura forzata, mentre i trasporti pubblici erano e continuano a essere stipati come carri bestiame. Fragili e anziani continuavano a cadere, come mosche, all’interno di Rsa, conventi, nosocomi dove erano confinati a respirare la stessa aria viziata.

La monocorde narrazione dei media ci raccontava che solo rigide restrizioni avrebbero sconfitto il virus. Alla ripresa dei contagi, lo scorso autunno, partiva la caccia agli untori dello Spritz estivo. Poche eretiche voci sollevavano il dubbio che, come altri virus cugini, anche il Covid-19 retrocedesse al sole estivo e si ripresentasse ai primi freddi. Oggi, pur di negare la “stagionalità” dell’epidemia, si attribuisce alla campagna vaccinale – ancora lontana dalla soglia dell’immunità di gregge – la riduzione dei casi. Eppure i numeri in calo, di questa e della scorsa estate, si assomigliano.

Come osservato da diversi qualificati studi internazionali, l’Italia è uno dei Paesi che ha adottato le restrizioni più severe riuscendo a consuntivare la peggior performance sanitaria ed economica. Qualcuno dirà, parafrasando un famoso detto sul comunismo, che il lockdown funziona, solo che è applicato male...

La pandemia ha fatto esplodere paradossi e contraddizioni. Il mantra era “uniti ce la faremo”, però richiusi nelle nostre isole di autodetenzione: un ossimoro come le famose convergenze parallele. Oppure: “niente sarà più come prima”. Ma l’umanità è sopravvissuta ad altre ben peggiori pandemie: nessuno predicava l’Armageddon, dopo la più funesta influenza spagnola di cento anni fa.

Per spiegare la pandemia e le sue conseguenze si chiamano in causa, in un esercizio di “reductio ad unum”, la crisi ambientale, la pretesa iniquità del nostro modello socioeconomico e le ineguaglianze a livello planetario. È più facile far credere che l’epidemia si sia diffusa per il riscaldamento globale o per il neocolonialismo nel Terzo mondo che non perché sfuggito alla manipolazione di qualche sciagurato sperimentatore in Cina: non sarebbe la prima e non sarà l’ultima volta.

Per restituire un futuro alle nuove generazioni le stiamo riempiendo di debiti – che gli stessi dovranno ripagare, con gli interessi nei decenni a venire – allo scopo di finanziare progetti e riforme quasi sempre lontani dalle esigenze di ceti produttivi e famiglie.

Alle imprese stremate dalle chiusure si concedono “ristori”: con meno ipocrisia si dovrebbero chiamare per quello che sono, ossia – scarsi e tardivi – risarcimenti.

Anche l’esercizio delle nostre libertà politiche è stato degradato – causa emergenza – ad accessorio di secondaria importanza: elezioni sospese o rinviate mentre molti altri partner europei tornavano regolarmente al voto.

Il pubblico sembra assuefatto all’idea che per uscire dalla crisi dovremo passare attraverso nuovi modelli di sviluppo. Perché? E che centra con il Covid-19? Più che una via di uscita dalla crisi sembra un pretesto per imporre un’agenda ancor più opaca delle origini della pandemia.

Colpisce la supina rassegnazione con la quale molti concittadini hanno accettato la mutilazione dei propri diritti costituzionali: la libertà è stata subordinata alla difesa della salute. Nella pretesa di proteggere i più fragili non si prova vergogna a suggerire di vaccinare, in età pediatrica, soggetti per i quali il rischio di reazioni avverse è assai superiore al beneficio di evitare il contagio.

Nobilitare con giustificazioni come solidarietà e responsabilità la pretesa di sacrificare la libertà di tutti fa suonare retorico il paragone con chi, nella storia del nostro Paese, ha sacrificato la vita per salvare la libertà.

Forse, smaltita l’ubriacatura di entusiasmo per la riconquista delle piccole recenti concessioni, avremo tempo e modo di riflettere se, nella prospettiva di dover convivere ancora a lungo con il virus, saremo ancora disposti a delegare ad altri l’arbitrio di definire la latitudine delle nostre libertà o se non sarà il momento di restituire alla nostra democrazia e a ciascuno di noi la dignità della libertà.


di Raffaello Savarese