martedì 25 maggio 2021
L’entusiasmo intorno al nuovo chiaro di luna (Måneskin) supera di gran lunga quello per la sonata di Beethoven. E trovare una motivazione è facile: chi proprio non li sopporta abbozza, e ricorda che sono pur sempre italiani. E poi, per fare infuriare i francesi, questo e altro, pensando che in mancanza di tre gol e un rigore parato, va bene anche il rock. Ma poi si sentono cinquantenni e sessantenni che disquisiscono su una materia che non possono capire, come una comunicazione criptata di cui non hanno la chiave dello scrambler.
Alcuni di questi hanno due soldi e il sogno di essere ammirati da ragazze che spupazzano a suon di regali, auto assurde, dress ridicoli e discoteche fuori dal mondo. Studiano come scolaretti le nuove mode per essere pronti a disquisirne davanti a facce giovani sottilmente disgustate. Se invece di bluffare ascoltassero la propria musica scoprirebbero, ad esempio, un Toquinho che ammonisce: “Il futuro è un’astronave che non ha tempo né pietà”. Tantomeno per loro.
Certo, non tutti si lanciano in avventure improbabili, ma sono troppi quelli terrorizzati dall’idea di sembrare indietro e che si auto-ipnotizzano per convincersi che il rock dei teen romani è il suono della vita. Così li lodano, li interpretano, li difendono dall’accusa infame di tirare coca sul palco, dando per scontato che farlo altrove sia la normalità, forse dopo aver letto le analisi sulla concentrazione di droghe negli onorevoli bagni di Montecitorio.
Tutti fieri di quanto l’Italia sia avanti, e lo dimostri rispettando e trasmettendo la versione integrale di Zitti e buoni, di cui l’Eurovision ha censurato due parolacce. Ogni trent’anni l’Italia vince una competizione di cui ci eravamo appassionati solo per Toto Cutugno e, ancora prima, per Gigliola Cinquetti, la cantante vaticana che riuscì persino a vantarsi di una censura: lanciò la canzone “Sì” in corrispondenza del referendum abrogativo sul divorzio. E Amintore Fanfani non gradì. È comunque certo che quasi nessuno ha memoria millenaria, e si rende conto che la storia si ripete, ad ogni generazione. Che è protagonista e interprete del presente, scritto in una lingua nuova sul cui dizionario più si è anziani, meno si hanno accessi. E quando si crede di aver capito una parola, già questa è cambiata, sempre con la velocità dell’astronave di Toco.
Facendo mente locale, in quanti abbiamo ribattuto ai genitori sui brani dei Beatles, che non erano assordanti come loro affermavano. Ma per loro erano capelloni, come molti di noi. Che non ci chiamavamo affatto boomer, perché il boom non era un marchio, lo si viveva, euforici per la ripresa economica. E quelli degli anni Cinquanta avevano e hanno conservato idoli diversi da quelli nati nei Sessanta. E così via.
Mentre ora sui social sembra che tutti siano uguali, e, archiviato il tifo per questo o quel virologo, lo scudetto all’Inter, l’ennesima guerra di Gaza, per qualcuno si deve pur combattere. Approvando o insultando i fan dei Måneskin, in una discussione senza senso, come tutte quelle chi riguardano i gusti personali. Gusti veri o millantati per calarsi gli anni, in attesa di un nuovo pretesto per insultarsi, trascurando l’unico buon consiglio dei nuovi euro-regnanti: state zitti e buoni.
di Gian Stefano Spoto