La mafia esiste ancora: ma di chi è la colpa?

martedì 25 maggio 2021


Si sono appena concluse a Palermo le celebrazioni per il ventinovesimo anniversario della strage di Capaci, che vide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della loro scorta, restare uccisi per mano di Cosa Nostra. Era il 23 maggio 1992. Di lì a poco, sarebbe stata la volta di Paolo Borsellino, collega e amico di Falcone, che trovò la morte per mano degli stessi assassini e con modalità del tutto simili. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, durante la commemorazione, ha ammonito a non dimenticare che la mafia esiste ancora: non è stata sconfitta ed è per questo che si richiede una continua vigilanza da parte dello Stato. O si sta contro le consorterie criminali – ha proseguito il presidente della Repubblica – o si è loro complici: non ci sono alternative.

La mafia – ha sottolineato Mattarella – teme più l’istruzione e la cultura di quanto non tema la giustizia, perché solo una popolazione scolarizzata, educata e formata ai valori di legalità e convivenza civile può togliere terreno fertile alla cultura mafiosa, che si basa invece su una distorta concezione del senso dell'onore e della lealtà. Già oggi, essa ha perduto parte di quella capacità di aggregare e di generare consenso tra la popolazione. Anche per la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, quello di Giovanni Falcone fu un lavoro straordinario, in quanto egli fu tra i primi a prendere consapevolezza della necessità di combattere la mafia a livello internazionale, colpendone gli interessi economici.

La Procura europea, che verrà istituita a breve da Bruxelles, è un lascito del magistrato italiano. Si unisce anche la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che vede in Giovanni Falcone un simbolo di giustizia e libertà dalle mafie. Oggi più che mai – dice la Casellati – la sua memoria deve spronarci ad agire contro la criminalità organizzata, ad impedire che esse approfittino della fragilità del tessuto sociale ed economico: lo Stato deve essere pronto a sovvenire ai bisogni delle famiglie e delle aziende prima delle consorterie criminali.

Ora, è indubbiamente giusto e moralmente doveroso ricordare con ammirazione coloro che sono morti perché noi potessimo godere di maggior libertà, messa chiaramente a dura prova dalla prepotenza e dalla violenza delle associazioni malavitose. Tuttavia, l’importanza del sacrificio di Falcone o di Borsellino, la forza prorompente e radicale del loro messaggio, il vero motivo per cui dovremmo celebrarli, è che essi diedero l’esempio di come la lotta alla mafia non procede tanto dall’azione dello Stato, ma dalla reazione da parte della popolazione, della società civile. Falcone e Borsellino, prima che due uomini di Stato, due magistrati che combatterono Cosa Nostra, furono due italiani (e due siciliani) che si rifiutarono di seguire la consuetudine allora in voga: quella di chinare la testa, di girare lo sguardo dall’altra parte, di fingere di non aver visto o sentito niente.

Scelsero invece di reagire. In questo senso, furono due rivoluzionari, due figure di rottura rispetto all’abitudine inveterata. La grandezza del loro operato sta nel fatto di aver posto le basi per una reazione socio-culturale al fenomeno mafioso. Questo, a sua volta, ci fa capire una cosa fondamentale: che la lotta alla mafia non passa da una maggiore presenza dello Stato, ma dalla presenza di una società civile forte, libera, ben struttura, cosciente di se stessa e dei suoi diritti. Pensare che estirpare la mafia voglia dire rafforzare lo Stato significa aver capito poco della faccenda: l’esperienza ci insegna che spesso la criminalità si annida proprio nei gangli della burocrazia e della politicizzazione dei sistemi; che il settore pubblico è, per essa, una garanzia di buoni affari; che trova terreno fertile laddove la presenza eccessiva dello Stato rende troppo complesso il districarsi nella pletora sconfinata di regolamenti e norme, che facilità abusi e violazioni; che proprio lo Stato, con l’assistenzialismo e la mentalità pauperista, prepara il terreno culturale alla mafia, poiché incoraggia i cittadini a restare poveri nella certezza di essere assistiti.

Lo Stato o la sua eccessiva presenza sono il miglior regalo che si possa fare alla criminalità organizzata. Al contrario, se vogliamo davvero estirpare questa malapianta, quello che si deve fare è puntare sulla coscienza dei cittadini dei loro diritti, sul loro amore per la libertà. Lo statalismo genera una mentalità parassitaria. Crea cittadini dipendenti, convinti che tutto sia dovuto e che, laddove ciò che si ritiene spettante non viene ottenuto con i mezzi “regolari”, bisogna cercarlo altrove, rivolgendosi alla protezione di altre entità e facendo ricorso alla forza e alla violenza. Quello di cui abbiamo bisogno è una cittadinanza libera, consapevole del suo valore, delle sue potenzialità, abituata al sacrificio e ad ottenere ciò che vuole con l’impegno personale e il lavoro. Una cittadinanza consapevole del suo diritto fondamentale, che non è incassare il sussidio, ma usare della propria libertà per determinare la propria esistenza. Solo una cittadinanza visceralmente legata alla propria libertà e a tutto ciò che questo implica riesce a sviluppare gli anticorpi contro le mafie.

E questo tipo di cultura non può essere insegnata, ma si stabilisce proporzionalmente al ritrarsi dello Stato e dei suoi apparati, quando i cittadini divengono consapevoli di essere davvero artefici del proprio destino e responsabili di tutto ciò che avviene loro, di non poter contare che su se stessi e sulle loro forze per darsi la vita che pensano di meritare e alla quale ritengono di avere diritto. I cittadini amanti della loro libertà e impegnati a tutelare i loro affari e le loro proprietà faticosamente acquisite non si piegano facilmente dinanzi al crimine: perché sanno di avere molto da perdere e poco da guadagnare. Viceversa, quando sono già stati privati dei loro diritti naturali – illusi dal fatto che essi siano barattabili coi cosiddetti “diritti sociali” – dal Leviatano statale e dallo stesso abituati ad avere senza mai dover fare nulla, la mafia rimane un problema di qualcun altro che deve essere risolto da chi ha interesse a farlo, e non dall’intera cittadinanza-proprietaria.


di Gabriele Minotti