Non ci resta che vivere

martedì 25 maggio 2021


Anche se stavamo in periodo virale e quindi presupposizioni sfavorevoli sorgevano spontaneamente, non immaginavo, nell’ottobre del 2020, di essere io soggetto alla malattia, meno ancora immaginavo che si sarebbe espressa nelle forme drammatiche sofferte. Per due mesi la mia esistenza fu dubbia e successivamente alcune mie parti, le gambe specialmente, sono state avvilite. Ma insomma, sto in piedi, camminicchio, lavoricchio, vivacchio.

Sabato ho fatto un viaggio nell’Italia centrale. Muovendo da Roma sono andato a Sutri, Capranica, Vetralla, Montefiascone fino a Bolsena, fondamentali per la civiltà etrusca e per la civiltà odierna. Così ben tenuti e ben coltivati, così antichi ma non corrotti dal tempo. Un passato che rimane: questa è civiltà e storia. Guardavo, apprezzavo, ogni abitazione: mi appariva quella in cui abitare, quanto sarei stato felice, laggiù, pensando quel che ora racconto.

Correndo in macchina abbiamo avuto voglia di qualche prodotto locale. Giriamo, finché ritiene trovata la via, la macchina aveva di pochissimo avanzato la strada e svoltare era abbastanza problematico. Il mio accompagnatore rischia di farlo, sto seduto accanto: un colpo potentissimo, sobbalzo, la cintura mi trattiene e mi trovo a testa in giù, di fianco. L’auto conficcata in un buco, il mio compagno di viaggio riesce dal lato sinistro ad uscire, io sono otturato, lo sportello sulla terra mi blocca. Accorre subito gente, rimango in quella condizione minuti e minuti, riescono a smuovere lo sportello e sostenendomi esco. Mi chiedono se ho bisogno di altro: gente premurosa, giovani, ragazze. Il mio accompagnatore si adopera per contattare un carroattrezzi che arriva, manovra, afferra l’auto, la rimette in funzione con qualche piccolo rimedio. Non è danneggiata in parti essenziali, dunque verso Roma.

La nostra esistenza si svolge nel segno del possibile. Ci addormentiamo e potremmo non svegliarci, se usciamo di casa non sappiamo che avverrà, neanche passando da una stanza all’altra. L’istante che viviamo è sottratto alla morte, nessuna garanzia da parte di nessuno che l’istante proseguirà nel successivo, una volta che raggiungiamo questa consapevolezza ci convinciamo che tale condizione non possiamo cambiarla, siamo in pugno al caso ed al non sapere. Non conosciamo se qualcosa di noi si staccherà dal corpo almeno per un lungo periodo e si ricongiungerà oppure sopravviverà eternamente da sola, o entrerà in nuovi corpi. O il corpo finirà del tutto e per sempre e noi siamo corpo e niente di altro.

Niente sappiamo, se Dio esiste o meno, se l’Universo è creato o da sempre esiste, formandosi nel tempo. Non sappiamo cosa avverrà alla fine del giorno e durante la notte, possiamo vivere o non vivere. Meglio dire: possiamo voler vivere ma in questa condizione di non sapere cosa accadrà nell’attimo che segue.

Per due volte in pochi mesi sono stato alla porta della conclusione della mia esistenza. E la mia volontà non venne consultata. Che faccio, rinuncio a vivere per sfiducia nella condizione dell’esistenza? No. Voglio vivere assolutamente, maggiormente contro la coscienza della morte e del caso. In verità, non ci resta che vivere, non significa soltanto esistere ma proprio vivere contro la morte. Sfuggirle, umiliare la morte e quando ci agguanterà dirle in faccia: contro te non posso vincere ma finché ho vissuto, ho vinto io. Così, per gesto sprezzante. Chiusura in versi.

Ignorare

Puoi accendere tutte le stelle

e guardare il Sole,

ma niente conoscerai

né tu, né Dio.

Puoi contare la sabbia dei deserti

e immergerti negli abissi,

niente comprenderai,

né tu, né Dio.

Puoi sostenere l’asse terrestre

e visitare l’aldilà,

niente scoprirai,

né tu, né Dio.

Sai di certo che vivi,

scegli come vivere,

il resto è ignoto

a te, a Dio, al Maligno.

Esisti soltanto tu,

solo,

e altri uomini,

soli,

e mai sapremo il nostro futuro.

E ignoreremo

come mai esiste l’esistenza,

ma vogliamo vivere

se vogliamo vivere,

ubriachi nella notte,

sacerdoti delle tenebre.


di Antonio Saccà