Ho fatto il vaccino a “Mediciland”, la nuova Italia

martedì 27 aprile 2021


Fatto! Come si legge in tante pagine Facebook. La mia vaccinazione è avvenuta nel “drive-in di Valmontone”: 20mila metri quadrati all’interno del parking di Valmontone Outlet, dove da qualche giorno è operativo il più grande centro vaccinale della Regione Lazio e il più ampio mai progettato fino ad ora, il quale somministra l’americano monodose (per ora) Johnson & Johnson. Una capacità, a pieno regime, di 3mila dosi al giorno. Lo ha inaugurato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: “Il progetto – ha spiegato – nasce dalla collaborazione tra l’assessorato alla Salute, la Asl Roma 5 e l’Outlet di Valmontone, nello specifico Dws Group (proprietà) e Promos (società che si occupa della commercializzazione e gestione della struttura)”. Il piano viene dagli Stati Uniti, dai modelli nella fattispecie attivi nella città di Denver, e somiglia a quella “medicina d’urgenza e sociale” di cui parla da anni Guido Bertolaso, l’ex capo della Protezione civile chiamato dagli americani per il terremoto di Haiti. Cioè “l’astronave”, in cui digitalizzazione, nuove tecnologie e medicina si integrano in nuovi protocolli.

Sarà la vicinanza col Parco giochi, sarà la gestione della stessa azienda, ottimo esempio di riconversione: effettivamente, rispetto agli standard italiani, sembra di entrare in “Mediciland”. Tutto in auto, non si scende mai: ingresso scandito da steward in giacca blu, personale dello staff e forze pubbliche, che prendono in consegna il vaccinando, indicando il percorso in cui l’automobile (con una, massimo due persone a bordo) come su un tapis roulant procede a tappe scandite. Assistenti e infermieri equipaggiati da bodyguard passano da due, ogni venti metri, a due ogni dieci metri fino alle tensostrutture, dove si è accolti dal medico e dalla specialista che praticherà la punturina. Breve intervista informativa, raccomandazioni, il braccio esposto al finestrino e… zac, è fatta. In fila avevo scambiato qualche parola con la coppia di coniugi del veicolo accanto, sbirciando il manager sempre al telefono e due extracomunitari in taxi, tutti consci e tranquilli.

Non dico di essere arrivata lì a cuor leggero. Più passano le ore, più realizzi la realtà. Viviamo la pandemia tra eccessi di notizie spesso divergenti e polemiche, così abbiamo rimosso la portata gigantesca, mondiale, planetaria del virus. Come noi, in ogni parte del pianeta, milioni di persone si stanno vaccinando. Allo stesso modo, per la stessa ragione, nello stesso tempo. Nulla aveva mai riguardato così globalmente il genere umano. Abituati al controllo su tutto facciamo difficoltà a realizzare la nostra fragilità e il cambiamento. Inventiamo complotti, immaginiamo super poteri, interessi, guerre, tranne che riflettere sul rapporto uomo-natura. La medicina rischia lo snaturamento dei salotti mediatici: questo o quel vaccino, subito o mai? Secondo me dovrebbe valere la vecchia regola del “medico di base” purché con il concetto “di famiglia”, punto fermo e apicale di una sanità rivoluzionata in protocolli sempre più specialistici ma anche algidi, cioè colui che conosce le nostre abitudini, il nostro standard, il livello di salute e dunque in grado di modulare.

Mentre avanzo, la radio trasmette un dibattito chiamando questa “una guerra”. Non sono d’accordo. La guerra presuppone lo scontro tra nazioni, gruppi, individui, in ballo c’è il controllo, il dominio, il potere. Questa non è una guerra, nessuno vincerà. È una delle tante “evoluzioni” che la vita umana ha dovuto affrontare, soprattutto pensando alle relazioni moderne tra Dna e Rna. In passato non c’era la tecnologia e dunque le epidemie hanno mietuto vittime in modo straziante, prolungato, senza speranza. Attenzione a non consumare il vantaggio. Appartengo a quella generazione che ha fatto i vaccini in fila a scuola, col grembiule bianco sfilato per il piccolo tatuaggio antivaiolo o con lo zuccherino con la goccia amara in bocca. Mamma custodiva in un cassetto i nostri “libretti vaccinali” come oracoli, li consultava, li aggiornava. Quando mi sono occupata di solidarietà, la prima cosa che ho fatto è stato aiutare famiglie e bambini soprattutto a mettere in regola documenti di identità e libretti vaccinali. Ai miei tempi si vedevano ancora persone menomate da quelle brutte malattie come la poliomielite, allora virale e altamente contagiosa, e penso che le diatribe sulla privacy in questo ambito siano speciose. La salute è cultura.

Più avanzo e più mi sale un nodo alla gola. Ho una irrefrenabile voglia di piangere. Troppo abbiamo tenuto tutto freddo: le tante morti, le file di bare, le paure, le notizie di amici e gente famosa che muore quotidianamente. In questa emotività imbalsamata sulle corde di una resilienza più adatta ai metalli che non alle persone, abbiamo perso il calore, la trasformazione, la modulazione del dolore. È cult pensare resiliente la persona, il trauma, anche la crisi sociale, come indica perfino il “Piano di ripresa”, ma questo assorbire e tornare allo stato precedente non fa parte dell’evoluzione umana. Nel rapporto col dolore l’uomo cresce, avanza. Ma abbiamo paura di soffrire e per cui preferiamo incassare come macchine insensibili, come il ferro e come l’acciaio, superare lo stress e tornare tali. Sempre più indifferenti. Ecco da dove risale quella violenza tossica e acida che ci minaccia. Tutto senza emozioni, come dicono i giovani depressi e sfiancati.

Sono forse suggestionata? Mia nipote Livia, mia musa del pensiero moderno, mi ha regalato dei libri e così ieri sera ho letto “Prendila con filosofia. Manuale di fioritura personale” di Andrea Colamedici e Maura Gancitano e “Anna” di Niccolò Ammaniti. Il libro di Ammaniti, confesso, l’ho chiuso dopo poche pagine, perché raccontando le avventure della colonia di bambini superstiti in un mondo sterminato da una pandemia, con tutto l’olezzo di cadaveri scheletriti e le zanne bianche delle bestie affamate, mi è sembrato un viatico troppo lugubre anche se fortemente evocativo. Così ho piuttosto approfondito i consigli della “fioritura personale” degli ideatori della scuola filosofica Tlon e seguendo le ataviche leggi della “bibliomanzia” ho aperto a caso una pagina.

Diceva: esegui questo esercizio, cosa faresti se questo fosse l’ultimo tuo giorno di vita? Oibò! Né più né meno di ciò che ho fatto: un sabato intenso di scambi famigliari emotivi, una domenica agreste con anime “nomadland”, conoscenza e serenità, fiducia nel cielo. Insomma, leggerezza. Bene dice quella pagina del Vangelo che ci esorta a “perdonare settanta volte sette”, non importa quanto ragione abbiamo nella vita vissuta, ma quanto animo lieve. Ed è proprio vero che “tutti i nostri capelli sono contati”, perché in qualunque situazione – se stiamo attenti – ci arrivano i segnali necessari.

Calo gli occhiali scuri sugli occhi umidi, mentre la gentile hostess mi fa cenno di avanzare. Squilla il telefono, è la mia amica che si è ricordata dell’appuntamento e mi accompagna nell’ultimo tratto: “Dai, ci sei, poi scriverai tutto”. È vero, io ho questo privilegio, vivere non nello spaesamento o nella confusione, ma vivere col dovere di cronaca. Vivere per raccontare. Il medico pratica la punturina, mentre mi complimento per l’organizzazione. È giovane. “Lo racconterà ai nipoti questo servizio epocale”, gli dico. Sorride. Con mio figlio quando era piccolo disegnavamo due punti sulla stessa linea in un foglio bianco, sotto a uno scrivevamo scienza e sotto all’altro fede, poi univamo e di quel punto intermedio gli dicevo: “Lì deve essere il divino”.

Passati i 15 minuti di verifica mi congedano con un sms sul cellulare, mentre la mano gentile e gli occhi azzurri dell’infermiera polacca mi sorridono e salutano. Tutto perfetto e sincronizzato sull’astronave di “Mediciland”. Serietà, responsabilità, organizzazione, armonia. Sarà così il futuro? Varco l’uscita e mi pare di essere… nel mondo nuovo.


di Donatella Papi