venerdì 12 marzo 2021
L’Europa sta culturalmente dimostrandosi una prigione. Torme di manichei burocrati stanno governando la nostra libera genialità. Ma i partiti politici restano immobili, silenti. Poi sarebbe oltremodo stupido accettare che una sorta di burocratica autorità europea decida per noi se una notizia sia o meno “fake”. Quasi che la mente dei popoli possa essere bollata come incapace di discernere, ergo inferiore per capacità cognitive a chi chiamato (forse cooptato) a gestire l’Olimpo della “tèchne” (parola greca su cui in seguito forse mi soffermerò).
Questa è una dichiarazione d’amore verso i propri intellettualmente simili. Si basa sull’istigare un comune disprezzo verso la sterilità afilosofica del momento che stiamo consumando. Un disprezzo ardente, appassionato, ossessivo per tutto ciò che è comune, medio e mediocre e per questo ammesso dal sistema: ovvero consono alla società, che promuove la burocrazia in base a quiz e non sulla vera conoscenza della materia. Una società in cui l’uomo dovrebbe, a mo’ d’animale in batteria, accettare le cosiddette regole dettate dall’Olimpo della “tèchne”? Da qui il disprezzo per il senso comune di paludata mediocrità, per la razionalità da conti della spesa; per le istituzioni in doppiopetto, per chi parla di “rispetto degli iter burocratici” e per le “regole comuni”, per un diritto senza filosofia… per tutto quello che gli uomini hanno inventato per schiavizzare altri uomini. Perché una civiltà occidentale cristallizzata in democrazia, scienza e tecnica ci sta togliendo il respiro. Ed è difficile spiegare alla gente che l’Illuminismo forse non volesse condurci dove siamo arrivati. Poi tutto questo vuoto che, con l’elogio sui “social” della superficialità, non preoccupa l’Olimpo ed anzi rafforza l’idea che i giovani si possano educare con la “tèchne” della didattica a distanza.
“Dio è morto”, confermerebbe Friedrich Nietzsche, ucciso ancora una volta dall’indifferenza dell’uomo. Da una società che rifugge il confronto, e che ha barattato la paura dell'infinito con l’infinita paura. E per favore fuggite da presunzioni religiose, la morte di Dio significa concepire il presente come valore in sé, libero da passato e futuro, eticamente immotivato. È grave perché con questa dipartita l’uomo ha perso anche il senso del dubbio: vive triste nelle grandi certezze d’un futuro preorganizzato dai signori dell’Olimpo della “tèchne”.
In questa buia fase il sentimento rimane di pochi, e non è in grado di manifestare effetti dirompenti: perché l’umanità vede una “sicurezza” nel prevaricare di pochi uomini sui popoli, la certezza che almeno le catene (e nel più materialistico dei significati) almeno ci appartengano. La morte di Dio coincide con la morte dell’uomo, ed a questo collaborano le “news buone” che da più d’un anno battono sulla generalizzazione anonima delle morti, quindi normalizzando e banalizzado il trapasso. Come per dire, “dobbiamo morire per salvare la Terra”. Dio è stato ucciso dall’indifferenza coltamente furba dell’uomo mediocre. Uomini addomesticati e vili, senza storia ma ben vestiti, ne hanno avuto compito e facoltà.
Liberarsi di Dio significa fare a meno della “legge morale” quando si giustifica l’amministrazione della “tèchne”. Ai tempi di “Così parlò Zarathustra” s’alludeva solo all’uomo che s’era liberato delle credenze ultraterrene. Ma anche oggi per la gente è difficile aver perso riferimenti e non dirsi esenti da incubi: nostalgia di sicurezza, ventate di pessimismo, perdita di orientamento, assenza di alternative. La vita del nostro momento, non più ancorata a verità storiche, filosofiche e religiose, si risolve in un fritto misto di mancanza di senso, in isterica alternanza tra gioia e tragedia per una frase letta su un social o perché ci si reincarna in un idolo di Sanremo. Concetti filosofici basilari sono l’eterno ritorno e l’infinito (e Friedrich Nietzsche li ha spiegati meglio di altri): un ciclo che si rinnova non nell’ordine ma nel caos.
Ma quest’ultimo oggi vorrebbero imprigionarlo nella tecnica. Trasformando le nostre vite, senza più sogno, in esistenze provvisorie e precarie: l’infinito non ci appartiene più. Per perfezionare il deicidio, hanno anche ucciso lo storico concetto di verità, coadiuvati da un esangue, polveroso e sterile sapere cattedratico: la società dei professori autoreferenziali ha contribuito ad uccidere Dio… quindi l’umanità. Il nostro “Essere” autentico viene per l’ennesima volta spento sotto l’incalzare della verità imposta dal partito della “dottrina delle idee” (il soggetto logocentrico di cui parlava Martin Heidegger). Quanto affermo non vuole assolutamente auspicare il conflitto tra Cristianesimo e matematica, tra religioni e scienze esatte, tra spiritualità e tecnica. Ma spingere l’uomo verso una lotta politica che destituisca di fondamento le imposture, ed attraverso una rigorosa lotta culturale. Quest’ultima è più che mai assente in tutti i partiti politici.
Perché al laboratorio politico e di pensiero s’è sostituito l’Olimpo della “tèchne” che ha messo insieme i nuovi sacerdoti (magistrati, scienziati e burocrati) che stanno imponendo un sapere auto-referenziale, scisso dal contatto fondante con l’esperienza. Un sapere nemico della natura stessa delle cose. Quella “physis” (per dirla alla presocratica) che traeva idea dalla potenza originaria, dal naturale ed equilibrato “caos”, padre della nozione originaria di verità. Ma l’uomo ha sempre più voluto dominare la realtà e la verità, fino al punto di generare l’attuale dittatura culturale planetaria. Perché era la “physis”, potenza originaria, che ci faceva comunicare e lottare liberamente nel nome del destino. Ma all’uomo non è bastato.
Oggi, ponendo Io al posto di Dio, ha dato alle fiamme la dimora dell’Essere. Il risultato? Un mondo dello spirito alla mercé della “tèchne”: termine greco assimilabile alla nostra “tecnica”, ma come conoscenza meramente teorica. Eppure, l’attitudine di una cosa a realizzarsi parte da una idea, dalla sua essenza. Non può continuare la nostra civiltà senza un accordo tra tecnica e uomo. Il nostro posto non può essere preso da macchine pseudo-senzienti. Ma l’intelligenza tecnica, oggi, sta imprigionando la genialità umana, rendendola subalterna alla manipolazione tecnocratica e burocratica. E potrà mai la didattica a distanza generare uomini liberi?
Platone nella celebre “allegoria della caverna” (contenuta nel libro della Repubblica) spiega proprio il tormentato processo di elevazione di un prigioniero (simbolico per l’uomo di oggi) schiacciato della quotidiana mediocrità imposta: una originaria condizione di dipendenza dalle ombre della caverna, per poi trovare la forza di pensare, grazie a quella che lui definiva idea suprema. Il prigioniero, lungo il suo itinerario di emancipazione, si rende conto del forte dolore derivante dalla lancinante sofferenza per l’incontro con la luce del sole, altro non è che il prezzo da pagare per poter pensare liberamente. L’odierna caverna è tutta nella generalizzata, ed anonima, dittatura del consenso omologato. Ci hanno reso asociali ma soggiogati dagli psico-drammi artefatti nei talk-show, nei reality e nei vari social media. Una caverna virtuale come la vita cui vorrebbero piegarci (lavoro virtuale, vacanze virtuali, moneta virtuale, sesso virtuale).
In questo lento scivolamento verso la prigionia in caverna, noi accettiamo i rituali imposti dall’Olimpo della tecnica. Eppure, siamo nell’Europa che dice d’aver sconfitto settantacinque anni fa il “nichilismo europeo”. Dovrebbero riflettere gli europeisti che difendono la forma, lo “scrigno del Nulla” (per usare metafora cara ad Heidegger), quando elogiano i dettami europei, il rispetto degli iter burocratici. C’è una caverna che ci attende? Il nostro carceriere non parla forse la lingua dei mercenari (il fiammingo di cui scriveva William Makepeace Thackeray in “Le memorie di Barry Lyndon”)? Rinunciando alla lotta per la libertà d’opinione, stiamo negando le stesse radici filosofiche europee.
di Ruggiero Capone