venerdì 19 febbraio 2021
C’era una volta lo show del sabato sera, il quiz del giovedì, il film del lunedì. Erano abitudini che regolavano le nostre funzioni sonno-veglia e gastro-intestinali, rendendoci magari ritardatari in ufficio, ma puntualissimi dopo la pubblicità. Il canone Rai è sempre stato visto come una gabella opprimente, mentre oggi la pay-tv è una scelta. E come tale non opprime nemmeno chi deve fare qualche rinuncia per la tele-mensilità.
Sky, Netflix, Dazn e tante altre. Tivvù su misura, secondo lo stato d’animo, secondo l’emozione che si cerca e quando la si cerca. Ecco, quando: la differenza sta nel fatto che la vita impone una serie di impegni, non poi tanto diversi da quelli di qualche decennio fa. Ma la famiglia unita che cena alle 20 al Nord, alle 20,30 al Centro e alle 21 al Sud sta perdendo pezzi a ritmo serrato. E in una casa ci sono diversi televisori, per cui marito e moglie spesso cenano separati non per litigi, ma per diverse quotidianità. E poi a lui piace una serie, a lei un’altra. I ragazzi non guardano più la tv per nulla, e questa frammentazione è studiata dai produttori delle pay per far sì che la vita virtuale parallela segua i ritmi di quella reale, e talvolta si intrecci pure con essa, provocando moti dell’animo non sempre compatibili con le atmosfere lavorative.
Comunque, l’inseguimento virtuale dello spettatore conquistato funziona alla perfezione. Icona Netflix: si lascia in qualsiasi momento, si riaccende in ogni tv, in ogni computer, sull’onnipresente smartphone e riprende immediatamente dallo stesso punto. Un meccanismo che induce mania e, soprattutto, dipendenza. Serie lunghe che possiamo seguire per quattro minuti o per intere notti, un episodio dietro l’altro senza sosta, per cui non è necessario attendere il giorno o la settimana seguente: manca il pathos dell’attesa, ma non c’è la sofferenza del dubbio. Quello che sta cambiando la nostra vita è un sistema quasi integrato e molto complesso, che si lega con il Re, che ora non ammette più di essere chiamato telefonino.
Alla fine degli anni Ottanta, quando uscirono in Italia i primi cellulari costavano una follia, si poteva parlare poco per motivi di bollette e batterie, si chiamava solo all’interno del territorio nazionale e, se si viaggiava, erano molte le zone d’ombra in cui la linea cadeva inesorabilmente. Seguirono i gsm, costosamente internazionali e gli sms, che sembravano giochi da bambini per comunicare da cucina a cameretta. Difficile immaginare che si sarebbe arrivati a usare il telefono per tutto, fuori che per parlare. Sempre più messaggi che dobbiamo cercare, perché talvolta ci sfugge se ci abbiano scritto o meno tramite WhatsApp, Messenger, forse una e-mail o, sempre più raro, il vecchio caro primo messaggino.
Chiamiamo sempre meno, così sentiamo raramente le voci, dal cui tono si intuisce più che dalle parole. Facciamo i preziosi, gli inamovibili, gli indistraibili. O forse siamo diventati tanto educati da annunciare l’intenzione di effettuare una telefonata vocale necessaria, specificando l’ora e il minuto in cui aspiriamo a comporre un numero che abbiamo in memoria, ma che sembra sempre più imbarazzante da digitare. Ci prenotiamo come si faceva negli anni Sessanta per una intercontinentale. Un compromesso si fa largo: quell’improvvisato galateo digitale spinge sempre più persone a non scrivere, ma a lasciare un messaggio vocale, che è vivo come una telefonata, si ascolta quando si vuole come una pay-tv, non espone a errori di ortografia, a lentezza di digitazione: è il futuro del passato. Però, alla fine, se neppure gli isolamenti da Covid hanno ripristinato le vecchie abitudini che iniziano con un “come stai”, vuol dire che Michelangelo Antonioni fu un grande profeta.
di Gian Stefano Spoto