Alla ricerca della distanza perduta oltre le mascherine

giovedì 18 febbraio 2021


Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini per non morire di freddo attraverso il calore reciproco. Tanto si strinsero l’uno a l’altro che le spine reciproche cominciarono a far sentire loro il dolore e a doversi allontanare di nuovo. Il bisogno di riscaldarsi li portò a stare insieme e a sentire nuovamente il dolore. Si avvicinarono e si allontanarono finché non ebbero trovato la giusta distanza che rappresentava per loro la migliore posizione (Arthur Schopenhauer).

Gli esseri umani al tempo del Coronavirus, come i porcospini, stanno sperimentando la giusta distanza che permette loro di non infettarsi reciprocamente. Un metro e ottantadue centimetri, senza stretta di mano, senza abbracci e baci, è la giusta distanza e la condotta sociale da adottare per sconfiggere il pericolo di una terribile pandemia, che l’attuale sistema sanitario mondiale non riesce a sostenere. Il rispetto della giusta distanza e di una corretta condotta sociale fanno, di ciascuno di noi, cittadini rispettosi, altruisti, responsabili e coscienziosi. La giusta distanza “Covid-19” rischia, però, di avere un effetto collaterale sociale e psicologico. Effetto collaterale che può determinare l’insorgenza di sintomatologie di tipo individualista, antisociale, ansioso e depressivo.

Chi è costretto alla quarantena vive uno stato sintomatologico che si ripercuote anche a livello psicologico e avrebbe bisogno non solo delle necessarie cure farmacologiche e di un’adeguata assistenza sanitaria, ma anche di un supporto psicologico che offra un contenitore di elaborazione dell’angoscia, della paura, del senso di precarietà e fragilità conseguente all’isolamento sociale. Chi è costretto a cambiare le proprie abitudini e chi vede trasformarsi la vita sociale intorno a sé, vive un senso di profonda precarietà psichica. Precarietà psichica che trova terreno fertile nella distanza di sicurezza e nel protocollo di protezione che, da un lato, garantiscono vitale protezione fisica ma da un altro lato scatenano un “virale” senso di persecuzione e isolamento. È isolato sia chi si trova a curare, ma anche chi è curato. Il curante e il curato necessitano di un tempo e di uno spazio di condivisione, all’interno del quale poter depositare le preoccupazioni, la rabbia, il senso di smarrimento e il peso della responsabilità verso se stessi, i propri familiari e tutti coloro che sono e sono stati vicini.

Pazienti, cittadini, sanitari – nel tempo della distanza di 1 metro e 82 centimetri – hanno bisogno di trovare il giusto spazio che permetta alla loro mente di collocarsi tra il senso di protezione e il bisogno di contatto. Contatto emotivo necessario all’elaborazione del senso di smarrimento conseguenza del vitale e necessario cambiamento delle abitudini quotidiane dovute al virus. Contatto emotivo che, oggi, può trovare nella rete virtuale (videochiamate, telefonate, chat) il canale privilegiato per annullare la necessaria barriera di distanziamento. Oggi, più che mai, per la salute della nostra mente è importante mantenere la distanza di sicurezza ma anche rimanere in contatto. Un contatto che dovrebbe rappresentare la priorità nell’analizzare, programmare e organizzare azioni sociali, che dovrebbero rispondere alla domanda: cosa dovrebbero fare amministratori responsabili e “competenti” per non permettere che il Covid-19 diventi una pandemia psichica? Forse dovrebbero “solo” imparare a coniugare i verbi osservare, analizzare, valutare, discernere, fare. E smetterla di ignorare, sottovalutare e non fare.

(*) Psicoanalista e Docente universitario di Psicologia generale


di Maura Ianni (*)