martedì 22 dicembre 2020
Parola d’ordine in questo periodo prenatalizio è il lamento. Ci lamentiamo perché non possiamo festeggiare il Natale in famiglia, non possiamo indossare gli sci, non possiamo andare al centro commerciale il fine settimana, non possiamo andare a cena fuori, a passeggiare di notte per le vie delle città illuminate. Lamento che non contempla la presa di coscienza che forse è già una buona dose di sorte favorevole non piangere congiunti morti per Covid, non avere la mente intasata dalla preoccupazione per qualcuno ricoverato in sala di rianimazione o non avere il portafoglio vuoto, la saracinesca abbassata e la dispensa ormai vuota e le bollette non pagate. Lamento che non contempla vedere oltre il confine del nostro naso. Lamento che non contempla la generosità, l’altruismo, l’attenzione all’altro, la condivisione.
Oltre il lamento c’è la capacità dell’essere umano di uscire fuori dalla sterilità dell’egoismo e dalla paralisi dell’egocentrismo. Egoismo come sinonimo d’incapacità di uscire fuori da una visione egocentrica della vita, dove la fa da padrona l’assoluta necessità di soddisfare i propri bisogni e di dare credito solo alle proprie difficoltà. L’egoista è egocentricamente assorto nell’ascolto della propria “sinfonia”. Sinfonia che non contempla le note dell’ascolto, della condivisione, dello scambio. Sinfonia che non contempla le note dell’attenzione all’altro. Sinfonia che conosce solo le note dell’Io sono, io sento, io soffro, io penso, io amo, io odio. Quanto spazio occupa l’io nella mente di chi non riesce a pensarsi come parte di un insieme che va oltre il proprio confine personale. Confine personale che rende la mente dell’individuo egocentricamente egoista rigida e sterile. Sterilità che non permette di coltivare il Noi, il Tu, il Voi, l’Altro. Sterilità che rende l’individuo egocentricamente egoista completamente assorto nel suo piccolo mondo. Piccolo mondo abitato e dominato solo dall’Io. Un Io che non si è evoluto dall’epoca infantile perché non ha sviluppato la capacità di apertura progressiva verso l’esterno.
Apertura che non è avvenuta a causa di un accudimento genitoriale che non ha valorizzato la capacità di credere in se stessi e amarsi. Amarsi per poter progressivamente imparare a donare amore agli altri. Apertura che se non avviene determina un atteggiamento di chiusura verso il mondo esterno e un’incapacità a provare piacere nello scambiare e nel donare affetto. Se siamo adulti e pensiamo che “Il più piccolo dolore nel nostro mignolo ci preoccupa e c’infastidisce di più della distruzione di milioni di nostri simili” (William Hazlitt) dobbiamo correre ai ripari. Dobbiamo riparare una “ferita” che ci ha impedito di crescere, di maturare, di liberarci dalla morsa del nostro egocentrico egoismo. Proviamo iniziando a renderci conto di quanto sia triste la nostra insensibilità verso i bisogni dell’altro. Proviamo ad ascoltare, a guardare, a toccare con mano le esigenze degli altri che ci circondano. Proviamo a godere dell’energia vitale che si ottiene aprendo i confini del nostro Io sentendoci parte di un Noi. Noi come la capacità di convivenza. Convivenza come capacità di incontrare e conoscere l’estraneità. Estraneità come altro da me, come diversità di obiettivi, di interessi, di desideri, di valori e di cultura. Convivenza come capacità necessaria e vitale di relazionarsi, di crescere, di cambiare, di dare vita a complesse e multiformi “sinfonie”. Sinfonie che nutrono la mente e che ci spingono ad esperire il nutrimento vitale che è custodito nell’atto generoso, nel pensiero altruistico e nell’empatia. “Se potrò impedire a un cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano. Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena, o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido, non avrò vissuto invano” (Emily Dickinson). Non avrò vissuto invano questo Natale 2020 se scavalcherò il confine del lamentoso egocentrismo dell’egoismo.
(*) Psicoanalista docente universitario di Psicologia generale
di Maura Ianni (*)