Tenerezza virale

lunedì 7 dicembre 2020


No, nessun galateo ci insegna come ci dobbiamo comportare finché vaccino non ci riavvicinerà. Non possiamo consultare gli scritti di monsignor Giovanni Della Casa, e nemmeno Colette Rosselli (nota anche come Donna Letizia), molto più recente, ha mai affrontato il tema degli incontri (sempre troppo) ravvicinati con conoscenti, amici e parenti, che ora possono essere più pericolosi dei serpenti. In questo semi-lockdown ritagliato con goffa e rozza diplomazia politica abbiamo rinunciato ad abbracciare, se non via WhatsApp, ma abbiamo anche assaporato l’alibi del virus per non avvicinarci a parenti che detestiamo. Il rischio è sempre il sottinteso psicologico: gli amici sono di casa, certo non ci contageranno. Gli amici degli amici? Garantiti dagli amici. E non ci chiediamo perché. Il primo approccio, anche fra le mura domestiche, resta sempre distanziato, come da copione ministeriale. Poi le primissime chiacchiere, quindi, uno stallo d’ordinanza: qualcuno deve assumersi il compito di chiedere se sia il caso di togliersi la mascherina, rischiando di scoprire consanguinei o compagni d’arme iper-ansiosi, e gelare l’atmosfera. Prima del pranzo, naturalmente: l’ultima cena si consumò duemila anni fa. Comunque, in genere qualcuno sdrammatizzerà, ricordando che fra poco si mangia, dunque, via la protezione.

Il problema, dentro di noi, nasce dopo. Voglia di continuare più fisicamente i discorsi iniziati con la telematica, e qui l’emozionalità sfugge a qualsiasi schema di educazione e self-control. Dopo la timidezza come da decreto, si scherza, si rievoca, i ricordi travolgono il sussiego coronato e nella nostra mente si insinua qualcosa di irrazionale. È una percezione subliminale. Con il passare delle ore, forse dei minuti, la ragione perde quota, soffocata dal sentimento, ed è questo l’attimo in cui il conflitto interiore ci fa desiderare esternazioni spontanee. Perché siamo umani. Cerchiamo di frenare quasi ogni slancio fisico, e il quasi ci salva la vita, o almeno è quello che crediamo. O che vogliamo credere. Il virus ci fa desiderare la normalità e persino mondi archiviati. Come le sciate che avevamo abbandonato da vent’anni, ma il cui divieto ci fa pensare con malinconia a quei Rossignol che in garage da rossi sono diventati grigi e sono lunghi il doppio di quelli moderni. Ma quanto sono belli, che voglia di usarli!

Per fortuna, accanto agli umani, ci sono i fenomeni, non vaccinati contro il Covid, ma contro tenerezza e ironia. Sono i maghi che prevedono tutto con certezze assolute, incuranti della figuraccia del povero Paolo Fox, quando annunciò un 2020 meraviglioso. I geni che, nello smarrimento generale, tracciano una road map sociale, politica, economica, strategica, di tutto il nostro futuro, attirando sempre qualche stralunato fan di dietrologie, cospirazioni e astrusi motivi per cui stando a casa si fanno meno figli. Il concetto di vaccino è forse più distante del vaccino stesso. Perché la nullità dei politici, e, quel che è peggio, degli scienziati, ci ha tolto ogni residuo di fiducia. E indotto a dubitare del fatto che americani, russi, inglesi o cinesi abbiano veramente trovato una paletta in cui “Corona-stop” si legga chiaro. Ma se e quando le vaccinazioni diventeranno routine consolidata le nostre braccia si allargheranno prima del tempo, vogliose di seguire l’istinto che ci fa stringere chi amiamo. E questa tenerezza è l’unico miracolo che forse avrà compiuto questo microbico assassino.


di Gian Stefano Spoto