martedì 25 agosto 2020
Il figlio voleva chiamarlo Walter, ma l’impiegato dell’anagrafe sentenziò: Gualtiero. Stessa sorte toccò ai neonati William, registrati come Guglielmo. Mussolini proibiva le parole straniere, nomi propri in testa. Ma poi la liberazione arrivò anche per chi sognava un esotico vissuto confusamente, ma che, comunque, violava la monotonia di una lingua fatta di parole piane, quasi tutte terminanti con vocale. E in cui mancavano lettere da sogno come j e y (mai bene distinte), w, k, e, nel suo piccolo, x.
Così una delle libertà conquistate era sguazzare in nomi orecchiati e scritti con mano indecisa e grafia incerta. L’Emilia rossa e partigiana , in questo, fece la parte dell’ingenuo leone. Vidmer era un cognome , diventò un nome , quasi una variante di Walter. Qualcuno lo scriveva con la doppia v, con cui faceva la sua figura. Famoso Vidmer Mercatali, che con una v semplice diventò senatore e sindaco di Ravenna. Anche Volmer o Wolmer era molto gettonato, così come i nomi femminili Noris, Velis, Meris.
Nel 2007, Loris arrivò a essere l’ottantatreesimo nome più scelto per i bambini italiani. Un dubbio, però, molto prima, assalì i duri e puri del comunismo ortodosso: va bene usare nomi proibiti dal fascismo, ma la guerra fredda schiera: dunque, erano opportune scelte guardando a est. E quale migliore scelta di un eroe dell’Unione Sovietica e del mondo intero, Jurij Gagarin? Lo scrissero in tutti i modi, Yuri, Jurj, persino Iuri, il partito non aveva un servizio ufficiale di translitterazione dal cirillico.
Più facile, anche se più mirato, Nikita non raramente apparso come Nichita, oggetto di piccoli choc quando uscì il film in cui Nikita era femmina e non sovietica. C’era sempre Dimitri, anche se la filmografia americana spingeva fortemente John, o Jon, perché no, Giòn, comunque sempre un duro.
Oggi tutto dovrebbe essere cambiato, soprattutto per l’Italia, Paese con il più importante patrimonio culturale del mondo, che, invece, appare ai primissimi posti nelle classifiche dell’ignoranza europea. Certo, rispetto al dopoguerra, siamo più ricchi e informatizzati, prendiamo un aereo internazionale con gli spiccioli di due caffè e due brioche al bar. Ma la cultura è un concetto astratto e scopiazzato, mentre le lingue pochissimi le sanno, molti le ostentano. Massacrando l’inglese e persino Svetonio e Catullo sui social compiacenti come una spugna che assorbe tutto.
Usiamo termini anglosassoni di cui non conosciamo né pronuncia né significato esatto. Spariamo un plàs e poi ci guardiamo intorno per vedere quanto ci ammirano per aver storpiato il latino. In fondo, un curriculum anglo-astruso fa effetto sul branco. Peccato che non sia il branco a decidere le assunzioni.
Intanto il mondo avanza e noi siamo ancora qui a chiamare le bambine Daiana, scritto Daiana. Ma sono passati sessant’anni, e Anka ricorda ormai le fratture scomposte, non più la musica che fece sognare Vidmer.
di Gian Stefano Spoto