venerdì 7 agosto 2020
Carlos Moreno, professore della Sorbona, propone una ipotesi di “nuova città” e, a mio avviso, è un chiaro e motivato contributo a ripensare il concetto di città, il concetto di ambito urbano. Pochi blog fa ho affrontato il tema delle aree metropolitane ed ho prospettato una nuova logica per la amministrazione di tali sistemi; Moreno, invece, non cerca una nuova procedura amministrativa, non invoca un processo programmatico nella gestione della città, prospetta ed anticipa degli obiettivi che a mio avviso sono rispettosi della definizione di città di Max Weber “ambito territoriale caratterizzato dalla presenza di un complesso di funzioni e di attività integrate e complementari, organizzato in modo da garantire elevati livelli di efficienza e da determinare condizioni ottimali di sviluppo delle strutture socio-economiche”, ma al tempo stesso, lancia alcune interpretazioni che, devo essere sincero, mi affascinano.
La definizione weberiana è senza dubbio stata alla base di tutti coloro che, nell’intero arco temporale del ‘900, si sono cimentati nella redazione di Piani Regolatori delle nostre città. Mentre il professor Carlos Moreno lancia il progetto della “città in un quarto d’ora”, cioè una realtà urbana che viene fruita sistematicamente entro e non oltre un segmento temporale limitato. Per Moreno si passa dalla mobilità subita alla mobilità scelta; in realtà è il primo tentativo con cui si intende ridimensionare quel pendolarismo che ormai è diventato riferimento di base nel rapporto tra sede del lavoro e lavoratore.
Molte città ormai stanno cercando di comprendere una simile rivoluzione concettuale, in particolare città come Melbourne, Copenaghen ricercano nuove logiche di interpretazione delle esigenze di una città che negli ultimi trenta anni è cambiata. Ricordo sempre che trenta anni fa le attività del terziario incidevano, nella formazione del Prodotto Interno Lordo, per una percentuale non superiore al 40%, oggi tale soglia supera il 70%. Le attività del terziario, in particolare quelle del “terziario avanzato”, si svolgono essenzialmente in ambito urbano e quindi un simile cambiamento impone un ricorso ad una geografia del tempo che sfrutti lo spazio nei vari momenti della giornata, cioè secondo Moreno bisogna rendere polifunzionali molti luoghi e in tal modo annullare le fasi in cui spazi della città sono privi di attività, sono prive di funzioni. Questo comporta il ricorso ad una elasticità interpretativa della città che si configura davvero come una delle rivoluzioni concettuali più avanzate e, al tempo stesso, forse l’approccio più interessante in termini di sociologia urbana. Le realtà in cui oggi si aggregano gli uffici, le realtà in cui si aggregano le attività commerciali, le attività in cui si aggregano i siti più interessanti in termini di beni culturali, sono tutti esempi della città sommatoria di momenti e non della città “sempre e comunque presente nella sua disponibilità ad essere usata”. Una attività imprenditoriale, un centro industriale, una piastra logistica vive, in un arco ben preciso di ore, le sue specifiche funzioni e poi rappresenta solo la sua connotazione fisica, cioè solo una volumetria priva di attività. Un edificio scolastico vive aggregando un numero rilevante di fruitori in un arco temporale davvero limitato: 8 – 10 ore e poi diventa uno spazio inutile, una volumetria del costruito. Un grande laboratorio per prodotti fashion vive forse anche dodici ore coinvolgendo uno svariato numero di frequentatori e raggiungendo anche in alcuni casi effetti di super affollamento degli spazi e poi rimane fermo per le restanti dodici ore senza consentire l’uso degli spazi, senza consentire l’accesso ad altri possibili utilizzatori. Una stazione ferroviaria vive anche 18 ore la sua funzione e la vive offrendo spazi essenzialmente legati alla fluidificazione degli arrivi e delle partenze di un numero ingente di utilizzatori della offerta ferroviaria ma, proprio perché tale funzione logistica consente tante occasioni per ottimizzare al massimo l’uso del tempo, sarebbe folle non ottimizzare al massimo un simile contesto all’interno sempre della città. Alcuni uffici come ad esempio quello delle Poste sicuramente nell’arco di un decennio non saranno più utilizzati; questi enormi spazi, queste tipologie degli interni sicuramente diventeranno inutili in quanto il processo di digitalizzazione, oggi non condiviso e non capito dalle fasce di utenti ultra sessantenni, renderà automatico ed informatizzato tutto ciò che riguarda la miriade di attività legate alla fiscalità, alla corrispondenza, alla riscossione ed al deposito di risorse, ecc. Automaticamente gli spazi oggi “vivi ed efficienti” per 10 ore al giorno diventeranno “vuoti” e privi di attività. I teatri, i grandi centri per la realizzazione di grandi eventi, vivono la propria funzione solo per un limitato numero di giorni e per un numero limitato di ore e poi rimangono spazi inutili.
Forse la unica realtà in cui l’utilizzo degli spazi è totale è quella del sistema sanitario, quella dei complessi ospedalieri e la vitalità di tali impianti con la relativa frequentazione per turni sistematici da parte dei vari gestori e dei vari fruitori, penso rappresenti un modello di riferimento per tutto ciò che all’interno della città definiamo come “costruito”. Ed allora dopo questa prima lettura prende corpo una prima considerazione, una prima ipotesi di rivisitazione degli approcci tradizionali alla pianificazione dell’urbano; prende corpo un primo convincimento: non ha più senso concepire o definire “una zona residenziale”. Forse non ha più senso parlare di zone; anzi potrebbe esserci, come atto coerente alla intuizione di Carlos Moreno, l’annullamento di ogni forma di ghettizzazione dell’intero contesto urbano. Non una città di quartieri ma una città di città, dove nulla si ferma, dove la presenza umana è sempre una garanzia per la funzione poliedrica della città stessa. Sembrano questi solo banali slogan invece sono un chiaro tentativo per modificare la nostra abitudine a seguire logiche pianificatorie standardizzate, logiche che in modo facile catalogano determinati ambiti e attraverso la destinazione d’uso ne assegnano, in modo irreversibile, la funzione. Modificare questa abitudine o, addirittura, rivedere integralmente le attuali articolazioni urbanistiche, rappresenta non una semplice rivoluzione concettuale ma una possibile rilettura di ciò che per secoli ha rappresentato il costruito rispetto al non costruito, una rilettura di ciò che da sempre noi chiamiamo centro e periferia, di ciò che da sempre consideriamo valore patrimoniale e non semplice bene d’uso.
Lo so questo è un approccio difficile e, devo essere sincero poco concepibile, ma stranamente Carlos Moreno non anticipa il futuro, non è lungimirante perché il presente da diversi anni contiene già queste innovazioni.
(*) Tratto dalle Stanze di Ercole
di Ercole Incalza (*)