venerdì 24 aprile 2020
Malgrado il virus, non si dimentica il 25 aprile e le televisioni ricordano gli avvenimenti drammatici di quegli ultimi giorni di questo mese del 1945.
Liberazione, insurrezione, sono le parole ricorrenti e sono il perno di una storia inesatta e distorta.
A fine aprile del 1945, Hitler era già rinchiuso nel bunker della Cancelleria e la Germania, Berlino compresa, erano invase da est a ovest. I tedeschi in Italia avevano una sola preoccupazione, quella di raggiungere il loro Paese prima della resa ufficiale. Parlare, come talvolta si cerca di fare, di un’Italia del Nord liberata dai partigiani è un falso. Parlare di insurrezione è, quanto meno, una imprecisione. Con ciò la discesa dei partigiani nelle città, la resa da loro intimata alle truppe tedesche non fu inutile. Ritirandosi dall’Italia senza trovare ostacoli i tedeschi non avrebbero tuttavia mancato di operare distruzioni e compiere ulteriori atti della loro crudele tendenza all’oppressione. C’è poi la questione dei fascisti della Repubblica Sociale ai quali concedere l’onore di una prigionia nelle mani degli alleati era qualcosa di immeritato e certamente eccessivo. Del resto quelle ultime gesta delle forze della resistenza e delle popolazioni che le appoggiavano non furono senza qualche traccia di valore e di sangue versato. Falso storico anche se non pieno ed evidente come quello di sostenere che “Bella Ciao” sia stato veramente un canto dei partigiani.
Di contro c’è una realtà dimenticata, c’è la realtà dello sgretolamento non privo di carattere di pagliacciata del Partito Fascista ricostituito al servizio dell’invasore dopo il primo dissolversi del 25 luglio 1943. E ci sono altre pagliacciate, quella ad esempio del radunarsi dei Gerarchi a Milano in nome di quello che era stato il soggetto sbandierato e mai nemmeno in qualche misura realizzato e preparato di andare tutti a combattere l’ultima battaglia ed a versare l’ultimo sangue in Valtellina. A Milano andarono quasi tutti con la prospettiva di filarsela in Svizzera.
Mussolini che dopo avere anche lui cercato di dare a bere a qualcuno la sua volontà di morire con le armi in pugno, fu catturato mentre se la filava travestito da soldato tedesco, simulando una sbornia che completasse la figura. Buffone. Come buffone era stato in tutta la sua carriera politica, di socialista e di fascista, di fondatore dell’impero, di oratore altisonante, di cavaliere che impugna la spada dell’Islam. Prima di ritornarsene a Roma scacciato via in seguito dall’Africa. Buffonesco ed umoristico non fu solo il fascismo di Starace. Tutto il sistema era una colossale pagliacciata. La lotta per imporre l’uso del “voi” anziché quello del “lei” e del saluto romano anziché la stretta di mano, non sono state una pretesa personale del povero Starace.
Un’analisi della scienza del fascismo sia essa fatta in base a teorie marxiste, sia secondo i canoni Crociani non dovrebbe prescindere da questa componente estetica, da questa intrinseca qualità pagliaccesca del fascismo. Vitaliano Brancati ha intuito questa entità essenziale dell’Italia con gli “stivali”. Che tale si presentò all’inizio e tale fu alla sua fine. Certo sarebbe interessante approfondire la storia del 25 luglio, che io insisto sempre nel considerare una trappola che Mussolini tese ai suoi Gerarchi per scaricarsi della responsabilità della guerra oramai per lui perduta e cavarsene fuggendo alla ferocia della reazione di Hitler. Il 25 luglio quei Gerarchi che affollavano la zona del confine della Svizzera per filarsela dopo avere predicato il dovere di morire tutti con le armi alla mano ed aver lasciato le loro sedi con la scusa di andare in Valtellina a morire per la patria, è il simbolo di questa seconda e definitiva fine del fascismo. Questo è il fatto che la storia sostanzialmente ignora. Questa dimostrazione finale e indiscutibile del carattere pagliaccesco del fascismo non è menzionata tanto dagli storici quanto dagli esponenti politici.
Se l’insurrezione non fu quella cosa con la quale furono veramente cacciati e vinti i tedeschi, oramai definitivamente sconfitti nella loro stessa Capitale ha dato il suggello del dramma ad una commedia che avrebbe marchiato l’onore del Paese più lungo di quanto si possa immaginare, è qualcosa di cui dobbiamo essere grati a chi ne fu artefice e protagonista.
di Mauro Mellini