Forum di Firenze: il nuovo ruolo dei professionisti della sanità

lunedì 2 dicembre 2019


Il quattordicesimo Forum Risk Management della sanità tenutosi a Firenze si è affermato come sede per la diffusione di buone pratiche per la sicurezza del paziente, dove fare sintesi e dare sviluppo alle numerose proposte che sono state presentate e condivise dai numerosi ed illustri ospiti che hanno animato gli spazi della Fortezza da Basso. Quest’anno un titolo molto interessante: “La sanità che cambia. Equità di accesso, innovazione, sostenibilità. Professionisti sanitari e cittadini protagonisti del cambiamento” con un programma che si pone un ambizioso obiettivo, quello di dare un contributo al necessario cambiamento del Sistema sanitario nazionale obiettivamente a rischio, che non lascia fuori i veri protagonisti: i medici e i cittadini, veri fruitori dei servizi sanitari.

Fra questi due mondi sembra esserci oggi una grande distanza. Come colmarla, dove si è sbagliato? Sotto i riflettori anche l’intero Ssn, fiore all’occhiello del Paese. Necessita uno sforzo da parte di tutte le istituzioni per aggiornarsi e superare le forti disuguaglianze regionali nell’accesso ai servizi. La Cisl medici nazionale, insieme a Simedet, a tal proposito ha organizzato un interessante simposio, il cui direttore scientifico è stato Giuseppe Giordano, della Cisl medici Umbria. Presieduto da Fernando Capuano, presidente nazionale simedet e da Biagio Papotto, segretario nazionale Cisl medici, moderato da Maurizio Zampetti, segretario nazionale aggiunto Cisl medici nazionale, ospitando grandi personalità, “cultori della materia con gli stessi obiettivi”, fra cui Federico Gelli, Ivan Cavicchi, la professoressa Donatella Lippi e Filippo Anelli, per discutere su come mantenere questo grande patrimonio che è il Ssn, che lo scorso anno ha festeggiato i 40’ anni e che adesso andrebbe modernizzato, arricchito, coltivato ma, soprattutto, mantenuto. “Negli anni ‘90 - come ha spiegato Federico Gelli, ospite della mattinata e autore della nota legge – qualcuno ipotizzava di farne un sistema misto come in Gran Bretagna, un Paese non così lontano dal nostro, dove il Sistema Sanitario presenta molte difficoltà”.

Con la riforma del Titolo V nel 2001 si ebbero 21 sistemi sanitari diversi, aumentando così le diseguaglianze e il caos. Il federalismo sanitario è stato un fallimento, perchéla sanità non è uguale in tutte le regioni, c’è la sanità di serie A, B e C. Allora abbiamo domandato a Federico Gelli.

Forse ci si è sbagliati? I dati dicono che la vita si è allungata e per questo non possiamo farcene una colpa. Se in più nasciamo in una regione svantaggiata rispetto ad un’altra più organizzata, va da sé che non si arriva ad invecchiare bene, dignitosamente, considerando che in quel territorio rispetto ad un altro non ci sono i servizi adeguati sulla base di quanto si è detto. È tutto da ripensare e non tutti oggi hanno i soldi per mangiare, figuriamoci per curarsi.

La politica deve avere il coraggio di resettare in senso positivo ciò che è avvenuto in questo Paese, noi abbiamo visto negli ultimi anni misure coraggiose importanti che cercano di aiutare le fasce medie della popolazione, come gli 80 euro di Matteo Renzi; abbiamo visto misure che cercano di arginare la povertà o comunque la situazione del disagio attraverso il reddito di cittadinanza. Io credo che il governo di un Paese come il nostro debba cogliere nel modo più propositivo possibile il valore straordinario che è il nostro Ssn unico nel mondo che ha ancora. Perché dico unico, perché noi abbiamo la storia del nostro Paese che si incentra su grandi e importanti riforme e sicuramente l’istituzione del servizio pubblico nel 1988 è stata una delle più grandi scelte di democrazia di questo paese. Altri paesi al quale noi ci siamo ispirati hanno abbandonato questo modello per problemi di compatibilità, per problemi economici, per scelte politiche, noi ancora oggi resistiamo. Ho l’impressione che anche noi, se non interveniamo con una cura shock, con una cura forte dal punto di vista decisionale, anche annunciando una nuova riforma del sistema sanitario con una serie importante di paradigmi e paletti che sono quelli dei principi fondativi del sistema sanitario del nostro paese, non saremo in grado di affrontare il futuro. Ben vengano le misure che sono state emanate in queste ultime settimane, l’incremento nella prossima legge di bilancio del Fondo sanitario nazionale sugli investimenti in edilizia, sul ticket. Ma non è sufficiente, perché non è attraverso interventi spot annuali, che sono legati alla contingenza del bilancio dello stato, che possiamo pensare di salvaguardare questo grande patrimonio, ma attraverso una grande e importante riforma dove investiamo in termini di risorse, in termini di perequazione, nella distribuzione delle risorse fra nord e sud. Per cui ben venga l’auspicio del ministro della Salute Roberto Speranza di lanciare criteri nuovi maggiormente equi nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale. Non è attraverso un regionalismo nazionale differenziato in senso negativo che noi dobbiamo andare, ma attraverso una maggiore perequazione delle risorse attraverso un maggiore ruolo del governo nazionale sulla sanità, e queste sfide si fanno se c’è una classe dirigente che ha il coraggio per presentare un cambiamento reale al paese. Abbiamo avuto il coraggio di presentare le altre misure che prima dicevo, perché non essere in grado di lanciare un’idea così bella e importante visto che il 98 per cento, forse il 100 per cento degli italiani sono legati, affezionati, a questo sistema che non ha uguali nel resto del mondo?

Altra presenza di rilievo all’incontro organizzato dalla Cisl Medici e da Simedet è Filippo Anelli, presidente di Fnomceo, che ha parlato della crisi della figura professionale del medico di oggi. Gli esperti oggi vogliono capire chi sia diventato il medico nei giorni odierni. Sembra non essere più libero di esercitare la sua professione o addirittura di fare prescrizioni anche di farmaci fondamentali e quindi la professione pare essere compromessa. Tutti vogliono mettere bocca su tutto.

Lei ha detto che la mancanza di autonomia nella professione medica non è un rischio ma una realtà. Come si può ritrovare questa autonomia?

Il recupero può avvenire solo attraverso una riappropriazione della credibilità, quindi è un percorso non soltanto di carattere tecnico ma soprattutto culturale. Nel senso che se nella nostra società noi medici torniamo a svolgere un ruolo importante e siamo percepiti come coloro che difendono i diritti di salute dei cittadini, che permettono che siano garantiti quei diritti, questo darà nuovamente credibilità alla professione, consentendo di staccarci da quell’idea che ci è stata affibbiata da un filone culturale presente dalla fine del secolo scorso e all’inizio di questo secolo che voleva trasformarci in tecnici, parte di un sistema a cui dare indicazioni e disponibilità economica che lo Stato aveva. Qui noi ci siamo prestati, sentendoci “dipendenti”, diventando i “medici dello Stato”. Invece i medici devono tornare ad avere un unico obiettivo, così come dicono le sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale i medici hanno un unico interesse: difendere la salute del cittadino, niente altro. Farlo naturalmente col massimo dell’appropriatezza, il che significa utilizzare bene le risorse, ma l’obiettivo non è quello del risparmio, di stare dentro un budget, ma quello di tutelare nella maniera migliore la salute del cittadino. Questo è il passaggio culturale che dobbiamo tornare a riproporre nella società che ci deve percepire come suo tutore, come se fossimo angeli custodi, come una volta, come riferimenti. Non può essere un processo normativo però, ma un processo culturale.

Dare alcune prestazioni mediche agli infermieri, è sicuro? Lei è d’accordo?

No, le prestazioni devono essere finalizzate alle proprie competenze e alle competenze acquisite e non possono riguardare tutti gli aspetti che sono legati alla diagnosi e cura, quindi anche gli strumenti che gli infermieri possono utilizzare, li possono utilizzare nell’ambito di quelle che sono le loro competenze e quindi non si deve mai superare la soglia della diagnosi e cura. Questo qualche volta è successo e quindi bisogna recuperare un ruolo e condividere insieme con gli infermieri che è possibile migliorare le loro prestazioni, migliorarle in termini di competenza e quindi migliorare la conoscenza e anche l’utilizzo degli strumenti se serve a far sì che diventino ancora più efficace il loro esercizio professionale, ma questo non può significare un’invasione di campo nella diagnosi e cura.

@vanessaseffer


di Vanessa Seffer