lunedì 2 dicembre 2019
Nel 1992 una nuova tempesta si abbatté sulla massoneria italiana; questa volta a metterla sul banco degli imputati fu il dottor Agostino Cordova, Procuratore della Repubblica di Palmi. Gli inquisiti erano 64 ma tutta la libera muratoria ne era di riflesso implicata. Le indagini, iniziate il 16 marzo del 1993, si protrassero a lungo senza portare alcun risultato, poi furono trasferite a Roma e il 3 luglio del 2000 il Giudice delle indagini preliminari, d.ssa Iannini, emanò un decreto di archiviazione, in quanto - fatta eccezione di uno stralcio relativo a Licio Gelli per il crack del gruppo di Nepi - non sarebbe stata rilevata alcuna illecita attività a carico degli inquisiti.
Nelle more dell’inchiesta, proliferarono, da parte delle pubbliche amministrazioni, una serie di disposizioni antimassoniche. Il 31 marzo del 1994 fu varato, infatti, il Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche amministrazioni, con imposizione al dipendente, (art. 4, c. I), di dichiarare l’iscrizione ad associazioni e organizzazioni, anche a carattere non riservato, a eccezione di partiti politici e sindacati. Il c. 2, stigmatizzava, inoltre, l’eventuale tentativo di proselitismo a opera dei dirigenti.
Ancor più decisa fu la delibera della Provincia di Firenze, dell’8 giugno del ’95, sulla Nomina e disegnazione da parte del presidente della Provincia dei rappresentanti della [stessa] presso Enti, Aziende e Istituti, che al punto 4 prevedeva: “Non possono altresì essere nominate come rappresentanti della provincia persone appartenenti o affiliate ad associazioni segrete di qualsiasi natura e a logge massoniche”.
La Regione Marche andò oltre, con la Legge n. 34 del 5 agosto del ’96, sulle nomine in Organi regionali, stabilendo (art. 5) che gli aspiranti alle nomine “dovranno presentare dichiarazione di non appartenenza a logge massoniche”.
Il Grande Oriente d’Italia impugnò con successo il provvedimento davanti alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo; infatti, il 2 agosto del 2001, la Corte, all’unanimità, condannò lo Stato italiano al pagamento di un’ammenda di 10 milioni di lire, per aver consentito il mantenimento della norma in violazione dell’articolo 11 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Il Tribunale europeo riteneva “che la libertà di associazione riveste una tale importanza da non poter subire alcuna limitazione”.
L’Europa assunse, così, un ruolo di garanzia per i massoni italiani, poco incisivo per l’opinione pubblica, divenuta ormai ostile e prevenuta, in virtù di una martellante campagna stampa che si protraeva ormai da quasi 20 anni.
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di Pierpaola Meledandri