Primo Maggio di sangue

giovedì 2 maggio 2019


Punire, punire, punire… la cantilena macista intorno alla vicenda del signor Antonio Stano, anziano di Manduria, picchiato e ucciso da una dozzina di ragazzi, la maggior parte di loro minorenni, passa quasi in sordina dietro ai rotocalchi sportivi e modaioli, coperto dalla pubblicistica attorno alla Festa del Primo Maggio.

Si festeggia la rinascita, la primavera, la speranza. Invece, il Primo Maggio di questo 2019 bisognava interromperlo. Imporre il lutto nazionale. Per chi? Ma proprio per la morte del signor Stano. Si dirà che non è un motivo sufficiente per interrompere una festa simile. Lo si dirà proprio perché non si è capita la gravità, e la tristezza, della situazione. Forse, in questo modo, si sarebbe compreso meglio “l’affaire Stano”. Invece no. Lo show continua, sotto l’afflato mediatico della mediocrità di Stato-comatoso. Il signor Stano è morto. E questo è un dato incontrovertibile. È morto, il signor Stano, dopo essere stato preso di mira, per lungo tempo, dai ragazzi del paese. Non tutti, certo, una parte. Una scatenata dozzina che, approfittandosi del suo stato di salute, passò dalle prese in giro per la strada a piccoli atti di vandalismo.

Tutti sapevano, tanto che anche il parroco si era prodigato per fare un esposto assieme all’anziano. Ma niente. Fin quando, per il principio del pendio scivoloso, secondo cui le cose vanno sempre peggio fintanto non si fermano, i ragazzi gli sono entrati in casa e lo hanno picchiato, uccidendolo. Lo hanno fatto per divertimento. Quando io ero alle scuole elementari mi ricordo che le maestre, invero assai violente negli atteggiamenti con noi “normodotati”, ci spingevano ad essere dei piccoli tutor con i compagni che erano ritenuti più “a rischio”: l’handicappato, il tardo, l’orfana, la ragazza di colore (a quel tempo assai pochi) e altri. Forse la nostra pietà sfociava spesso nella commiserazione; ma ci stringevamo attorno a quei “casi umani” quasi fossero dei gattini, e alle volte, persino sentendoci noi in colpa per non patire la loro stessa condizione.

Gli atteggiamenti goffi di quelle retrograde maestre erano migliori di quello degli educatori contemporanei, che preferiscono nutrire piuttosto che educare, comprare anziché vivere con i ragazzi. Per educatori mi riferisco alle famiglie, che appaltano la mezza giornata dei loro figli alla parrocchia, alla scuola, alla piazza, alla televisione; dando la loro delega in bianco. Pensiamo che si debba essere l’esercito della salvezza per aiutare chi ha bisogno, per interessarsi ai “casi umani”. Non capiamo che siamo tutti quell’esercito della salvezza, che i tempi richiedono la nostra partecipazione, un auto-arruolamento, la nostra militanza costante all’interno dei valori civili.

Eppure, nemmeno i figli ci interessano più. Non perché i genitori, oggi, facciano mancare qualcosa; tutt’altro. Spesso le famiglie fanno i debiti pur di comprare l’ultimo modello di cellulare. Non indebitano però il loro tempo per stare con i loro figli, per vigilare su di essi, per essere, sì, anche petulanti, fino alla noia, fino al litigio, per inculcare ai figli per lo meno la pietà umana. Il fatto che, nella loro chat di gruppo, gli assassini del signor Stano si chiamassero “la banda degli orfanelli” la dice lunga sul loro stato esistenziale. Siamo diventati una società che partorisce degli orfani. Ed un mondo orfano è sempre, per sua natura, violento. Come quell’umanità alla perenne ricerca di un Padreterno che gli sussurri dolcemente all’orecchio: “tu sei mio figlio…”.


di Danilo Campanella