lunedì 22 dicembre 2025
L’Italia ha conosciuto negli ultimi trent’anni una trasformazione politica senza precedenti nella sua storia democratica. Non si è trattato soltanto di un rinnovamento della classe politica, ma di qualcosa di più radicale che ha portato a un vero e proprio cambio di paradigma.
Tra il 1948 e il 1992 l’intera attività politica si fondava sui partiti di massa nati nel primo Novecento e consolidatisi nel Secondo dopoguerra. Essi erano dotati di organizzazioni diffuse nel territorio, di organismi interni al mondo del lavoro e delle professioni, addirittura potevano contare su vere e proprie scuole di partito. La formazione della classe dirigente prevedeva percorsi di militanza la cui cifra era costituita da una granitica identità ideologica e da un forte senso di appartenenza collettiva. Si giungeva in Parlamento non prima di avere completato un lungo e rigoroso percorso di maturazione che avveniva per mezzo d’incarichi ricoperti nelle amministrazioni locali.
L’attuale classe politica si forma, invece, in un contesto completamente diverso sia sul piano storico che culturale. La fine della Guerra fredda manda in crisi i partiti tradizionali a forte caratura ideologica, mentre inizia il crollo della militanza e della partecipazione al voto. La selezione dei leader, complice la rivoluzione digitale, avviene velocemente e in assenza di cicli formativi strutturati. Tutto ciò non poteva che favorire l’ingresso in Parlamento di figure nuove e, non di rado, inesperte.
Un tale cambiamento di registro ha riguardato tutti i Paesi democratici e si è realizzato in un arco di tempo sufficientemente ragionevole per potere essere assimilato sia dai governanti che dai governati. In Italia, viceversa, il nuovo assestamento di sistema si è consumato in pochi mesi a causa dei colpi inferti al mondo politico dalla tempesta giudiziaria del ‘92-’93.
Siamo passati, in modo pericolosamente rapido, dalla “democrazia dei partiti” (durante la quale gli elettori si riconoscevano in entità politiche stabili e i partiti fungevano da mediatori tra società e istituzioni) alla “democrazia del pubblico”, laddove − come scrive il politologo Bernard Manin − “il legame ideologico si indebolisce e gli elettori si trasformano in un pubblico fluttuante, meno fidelizzato, più sensibile alla comunicazione dei leader, più volubile nelle preferenze”. Talché la visibilità mediatica e la capacità di parlare direttamente alla pubblica opinione diventano fattori centrali nei processi di selezione delle leadership.
La distanza fra la prima e la seconda Repubblica non è solo segnata da un semplice ricambio di élite, ma è il risultato di un mutamento profondo delle stesse forme della democrazia con conseguente trasferimento di poteri dai partiti ai singoli leader. Allo stato delle cose la domanda da farsi è: a fronte di una realtà, soprattutto internazionale, sempre più complessa, una classe politica scelta attraverso le regole della “democrazia del pubblico” sarà in grado di rispondere adeguatamente alle nuove sfide che il Paese dovrà affrontare?
di Francesco Carella