venerdì 5 dicembre 2025
Mercoledì sera il Centro ebraico italiano “Il Pitigliani” di Roma, in collaborazione con l’Ugei – Unione giovani ebrei italiani – e la Libreria Kiryat Sefer, ha ospitato la presentazione dell’ultimo libro di Maurizio Molinari: La scossa globale. L’effetto-Trump e l’età dell’incertezza (Rizzoli). A moderare il direttore responsabile della rivista giovanile HaTikwa, David Di Segni, che ha saputo condurre il dialogo con l’autore dalle prospettive di una politica internazionale sempre più instabile alle ripercussioni di questa fase transitoria sull’Europa, l’Italia e la diaspora ebraica.
L’incontro si è aperto con i saluti introduttivi del presidente de “Il Pitigliani” Daniel Coen, che ha posto una domanda sull’influenza degli agenti stranieri nel fomentare il clima di eversione in Occidente. Sono poi intervenuti Luca Spizzichino, presidente dell’Ugei, e il presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, che ha definito il libro “un vademecum essenziale per ogni politico, perché offre un vantaggio concreto attraverso la teoria delle asimmetrie informative”. Chi sa prima e meglio degli altri, infatti, dispone di una risorsa intellettuale non indifferente. Il saggio di Molinari è supportato da dati quantitativi solidi, ricostruisce le mosse degli attori dello scacchiere geopolitico e ha un merito raro: spinge il lettore ad approfondire gli argomenti trattati nelle sue pagine, invece di relegarlo a un consumo effimero e passivo.
Una tra le voci più brillanti del giornalismo ebraico italiano, David Di Segni si è distinto per l’eloquio forbito e la capacità di unire la profonda conoscenza della diplomazia statunitense alle vicende contemporanee. È questo il talento che gli ha permesso di tracciare un parallelismo tra la leadership di Donald Trump e le strategie dei presidenti repubblicani del secolo scorso. La Big Stick diplomacy di Theodor Roosevelt, menzionata nel libro, si giustappone alla Diplomazia del dollaro di William Taft, che prevedeva l’uso dell’economia come strumento di politica estera “impiegando i dollari al posto dei proiettili”. Non mancano i riferimenti alla Madman theory di Richard Nixon, simile alla teoria del cane pazzo formulata dal capo di Stato maggiore israeliano Moshe Dayan, e al principio Peace through strength di Ronald Reagan, che ha sancito il primato della deterrenza per contrastare l’espansionismo sovietico negli anni Ottanta.
Ma Trump rimane una figura ambivalente che, da un lato, promette di ridurre le instabilità, ma dall’altro vuole scardinare gli equilibri tradizionali. Da qui il nodo centrale del dibattito: in che modo il tycoon intende – o può davvero – condurre l’America verso una nuova Golden age? L’editorialista di Repubblica, già collaboratore di lungo corso de L’Opinione delle Libertà, ha esordito con una valutazione del secondo mandato di Trump che, a suo avviso, chiude definitivamente il ruolo degli Stati Uniti come architetto e garante dell’ordine multilaterale emerso dopo la Guerra fredda. Il ritorno a una Realpolitik di stampo novecentesco definisce la svolta strategica di Washington, che assume così una posizione meno universalista e maggiormente orientata alla salvaguardia dei propri interessi. Gli accordi bilaterali prendono il posto delle alleanze strutturate, i dazi diventano un’arma di pressione diplomatica, il disimpegno selettivo proietta scenari inediti e alimenta un’incertezza destinata a durare nei prossimi decenni.
Molinari ha descritto con chiarezza l’assetto attuale del mondo, che considera ormai tripolare. Stati Uniti, Russia e Cina agiscono con l’obiettivo di rimodellare l’ordine della sicurezza internazionale. “A partire dal 1989”, ha spiegato, “le potenze emergenti hanno cominciato a muoversi in modo offensivo. L’invasione russa dell’Ucraina e la Via della seta sono solo due dei segnali più evidenti di questa tendenza”. Secondo Molinari, la transizione globale che stiamo vivendo può prendere tre direzioni. La prima è un accordo complessivo tra le grandi potenze, sulla falsariga dello spirito di Yalta. Un’altra è lo scontro diretto, dagli esiti impossibili da prevedere. La terza è una conflittualità costante, che potrebbe moltiplicare i fronti aperti nelle aree più fragili, come il Sud-est asiatico e il Medio Oriente.
Di Segni ha evocato l’oscillazione del pendolo americano tra l’interventismo e l’isolazionismo, mettendo in luce il rischio che corre l’Occidente se gli Stati Uniti dovessero distaccarsi dai loro alleati. Molinari ha risposto richiamando gli sviluppi avvenuti a Mosca negli ultimi giorni. Putin ha incontrato per cinque ore due uomini molto vicini a Trump, Steve Witkoff e Jared Kushner, pur mantenendo una posizione rigida nelle trattative negoziali. Per l’ex direttore di Repubblica il presidente russo è convinto che i vertici dell’Unione europea non vogliano siglare un accordo di pace e punta a separare Washington da Bruxelles, costringendo l’Ucraina a pesanti concessioni e lasciando l’Ue a gestire da sola il proprio futuro.
Di Segni ha poi ampliato lo sguardo sui conflitti contemporanei, che non assomigliano più alle guerre convenzionali del passato. Sono scenari multidimensionali che coinvolgono il sottosuolo, lo spazio, la robotica e l’intelligenza artificiale. Il giornalista ha citato a proposito il generale Giulio Douhet che, alla fine della Prima guerra mondiale, intuì come il controllo dell’aria avrebbe portato al dominio in guerra. Molinari ha aggiunto alcuni esempi concreti per mostrare le radicali trasformazioni del quadro bellico. Dodici bombardieri statunitensi B-2 scortati da 70 velivoli di supporto sono riusciti a mostrare una capacità militare senza paragoni nell’operazione Martello di Mezzanotte, condotta a insaputa degli alleati. Nel frattempo, la Cina sta costruendo una città militare sotterranea più estesa del Pentagono. E gli oceani dipendono da quattrocento cavi sottomarini estremamente vulnerabili, come dimostrano gli attacchi degli Houthi nello Stretto di Bab al-Mandab.
Il discorso si è poi spostato sulla frontiera dell’Intelligenza artificiale. Anche se le tecnologie consentono di costruire percezioni false – un ambito ideale per chi intende manipolare la realtà – le guerre digitali convivono con tecniche primitive che riaffiorano nei campi di battaglia e con modalità di combattimento che richiamano epoche lontane. In Donetsk l’avanzata russa sfrutta la nebbia invernale, che rende completamente inutili i sensori dei droni. Nei territori adiacenti alla Striscia di Gaza, alcune unità dell’Idf suonano lo shofar per trasmettere ai miliziani di Hamas un messaggio di natura spirituale: Dio è contro di voi. Quando i terroristi di Hamas contattarono all’improvviso la madre dell’ostaggio Matan Zangauker, chiedendole per quale motivo non scendesse in piazza a protestare contro Netanyahu, rispose fulminea: “Il destino di mio figlio è solo nelle mani di Kadosh Baruch Hu”, espressione che identifica Dio (“il santo, benedetto egli sia”).
Molinari ha passato in rassegna il terreno della disinformazione. “Dopo il 7 ottobre”, ha osservato, “numerosi account legati alla propaganda filorussa nel contesto ucraino hanno cambiato improvvisamente registro, rilanciando delle tesi favorevoli a Hamas”. Non si è trattato di un fenomeno spontaneo: dietro a queste virate si muovono spesso gli attori qatarioti e le reti vicine ai Fratelli Musulmani. Un condizionamento che si riscontra, ad esempio, nel lessico di molti sostenitori di Zohran Mamdani, secondo cui il sionismo è l’antitesi della giustizia sociale, trasformandosi in un’etichetta accusatoria piuttosto che in un valore.
Essenziale il tema dell’Aliyah. Molinari ha fatto cenno a una recente simulazione promossa dal ministro dell’integrazione Ofir Sofer, che immaginava l’arrivo di 35mila ebrei europei in un solo mese: si tratta di un numero di gran lunga superiore alle comunità ebraiche dei Paesi baltici. Un’Aliyah accademica dagli Stati Uniti potrebbe avere un impatto significativo sul sistema universitario israeliano e, al tempo stesso, favorire la crescita demografica che sta ridisegnando la Galilea e il Negev. Di Segni ricorda come la perizia organizzativa del governo israeliano eccellesse anche ai tempi dell’Operazione Salomone, che portò in Israele circa 15mila ebrei etiopi sfuggiti alle persecuzioni religiose.
In chiusura, Molinari è tornato a parlare dell’Europa, affermando quanto l’assenza di una visione strategica condivisa continui a pesare nel momento forse meno adatto per procedere in ordine sparso. Quando la serata si è conclusa, in sala sembrava emergere un’intuizione comune: per leggere il presente occorrono lucidità d’analisi e buone chiavi di lettura. La scossa globale fornisce entrambe, ed è per questo che il pubblico l’ha percepito non come un semplice libro, ma come un compagno di navigazione nei tempi che ci attendono.
(*) Maurizio Molinari, La scossa globale. L’effetto-Trump e l’età dell’incertezza, Rizzoli, 320 pagine 22 euro
di Lorenzo Cianti