giovedì 4 dicembre 2025
Il salario minimo è tornato prepotentemente al centro del dibattito politico dopo mesi di apparente letargo. I dati sull’economia spagnola non solo hanno trasformato Pedro Sánchez (Dio ce ne scampi) nel nuovo idolo dei compagni nostrani, ma hanno anche fornito alla sinistra un alibi per attaccare il governo sull’introduzione del salario minimo. Il ragionamento dei socialisti è semplice: l’economia spagnola cresce ben oltre la media Ue; la Spagna ha introdotto il salario minimo e i dati mostrano effetti positivi sull’occupazione; quindi il salario minimo funziona e stimola il lavoro. Un ragionamento che, però, rischia di essere superficiale. Per capire meglio l’impatto reale del salario minimo, conviene confrontare la Spagna con altri tre Paesi che lo applicano da tempo: Germania, Francia e Regno Unito. E soprattutto guardare non al valore nominale, ma al rapporto tra salario minimo e salario mediano, cioè il salario “tipico” del Paese, non distorto dagli estremi. È proprio qui che emergono le differenze più importanti.
Francia e Spagna condividono un problema storico: livelli di disoccupazione elevati, soprattutto tra i giovani, che faticano a inserirsi nel mondo del lavoro. E non è un caso che in entrambi i Paesi il salario minimo equivalga a circa il 70 per cento del salario mediano. Si tratta di una soglia molto alta, che alza il costo di ingresso nel mercato del lavoro e limita le opportunità per chi ha meno esperienza o qualifiche iniziali. Il quadro è diverso in Germania e nel Regno Unito, dove il salario minimo pesa meno rispetto al mediano: circa il 50 per cento in Germania e tra il 26 per cento e il 57 per cento nel Regno Unito, a seconda dell’età. Questa distanza più ampia permette una maggiore flessibilità, favorisce l’assunzione dei giovani e mantiene più contenuti i livelli di disoccupazione. Ovviamente il salario minimo non è l’unico fattore in gioco. Contano anche la struttura del mercato del lavoro, la burocrazia, il sistema fiscale, la capacità delle imprese di innovare.
Ma il confronto europeo lascia emergere un punto chiaro: quando il salario minimo si avvicina troppo al salario mediano, rischia di diventare un ostacolo, soprattutto per chi vuole entrare nel mercato del lavoro. In questo senso vale la pena ricordare che la proposta della sinistra in Italia si colloca tra i 9 e i 10 euro lordi l’ora. Un valore che, rapportato ai salari italiani, avvicinerebbe il nostro sistema proprio ai modelli francese e spagnolo, caratterizzati da un salario minimo relativamente alto rispetto al mediano. Questo elemento è fondamentale per capire quali effetti potrebbe avere una misura simile nel nostro mercato del lavoro. In sintesi, il problema non è tanto l’esistenza di un salario minimo, quanto il modo in cui viene calibrato.
Un salario minimo fissato troppo in alto può finire per escludere proprio le categorie che dovrebbe aiutare: giovani, lavoratori poco qualificati, chi cerca la prima opportunità. E costruire un mercato del lavoro che funziona davvero significa tenere insieme equità e accesso, non sacrificare la seconda in nome della prima. E c’è un ultimo punto che nel dibattito pubblico sembra sempre sfuggire, quasi fosse un dettaglio da sorvolare: il salario minimo, per sua natura, non dovrebbe mai diventare la normalità. Parliamo di una soglia di dignità, del limite oltre il quale un Paese civile decide che non si scende. È un argine, non un traguardo. È il paracadute per evitare gli abusi, non il livello con cui immaginare la vita di un lavoratore comune.
E invece troppo spesso viene raccontato come se fosse lo standard desiderabile, il punto di riferimento per il “cittadino medio”. Una distorsione che altera il buon senso. Il salario minimo riguarda situazioni eccezionali, non la normalità del lavoro. Dovrebbe servire a proteggere chi è all’inizio, chi attraversa una fase difficile, chi svolge attività marginali o temporanee. Non può trasformarsi nel simbolo di un’economia che si accontenta del minimo o che rinuncia a far crescere le competenze e i redditi. Perché se un Paese intero si ritrova a vivere intorno al salario minimo, il problema non è lo strumento in sé: è la fragilità del sistema che lo rende così inevitabile. Significa che la produttività non cresce, che l’ascensore sociale è fermo, che manca quella cultura del lavoro che dovrebbe premiare impegno, abilità e continuità.
Confondere la rete di protezione con il pavimento su cui costruire l’intero mercato è l’errore più grave. Il salario minimo deve garantire tutela, certo, ma senza diventare una gabbia che definisce verso il basso le aspettative di un’intera società. Perché un Paese dove il minimo diventa la norma non è un Paese più giusto: è un paese più debole.
di Andrea Chiavistelli