mercoledì 3 dicembre 2025
Rischi e criticità del disegno di legge sul libero consenso
Il consenso come punto di incontro tra maggioranza e opposizioni. Sotto l’egida del disegno di legge pensato per porre un freno ai reati a sfondo sessuale si materializza l’inusuale e inaspettata pacificazione tra destre e sinistre. Chissà perché. Per quali strane e perverse ragioni centrodestra e campolarghisti sono riusciti a trovare una tale convergenza su un tema cotanto ampio e spinoso come quello che andrebbe regolato dal ddl sul libero consenso? Sarà forse che l’inedito incontro tra due schieramenti così ideologicamente distanti si è potuto concretizzare per via del progressivo arretramento di una delle parti in causa? Quale delle due non è poi di così difficile intuizione. E se così fosse, allora verrebbe lecitamente da chiedere ai rappresentanti dell’Esecutivo: perché? Per quali motivi insistere così ostinatamente fossilizzandosi su tali posizioni? Perché accettare così arrendevolmente l’idea di rimettere il sesso interamente nelle mani delle toghe, declinando la gestione dei rapporti privati degli individui all’ampia discrezionalità del magistrato di turno? E si badi bene: se si tende a sottolineare quanto appena asserito, non lo si fa nell’intento di muovere una critica al sacrosanto principio su cui si impernia la riforma, bensì in quanto il testo in questione, così com’è stato concepito, presenta tutta una serie di passaggi alquanto vaghi che finirebbero inevitabilmente col prestarsi alla libera interpretazione del soggetto giudicante.
A cominciare dal principio cardine della stessa riforma, ovverosia da quel passaggio cruciale che vorrebbe il consenso come “libero e attuale”. Ma come si fa precisamente a dimostrare che il consenso sia effettivamente “libero” e sempre e comunque “attuale”? E in che modo è possibile revocarlo in determinate situazioni provando altresì di averlo fatto? Come riuscire a provare la sopravvenuta revoca ad atto in corso dopo averlo originariamente concesso? Inutile sottolineare come il tutto finirebbe per ridursi alla parola dell’uno contro quella dell’altra, data l’assai probabile assenza, almeno nei casi canonici, di terze persone coinvolte o direttamente interessate nella relazione. Chi stabilisce, dunque, se, a margine di un rapporto di natura intima, il consenso precedentemente concesso sia poi realmente venuto meno? E sulla base di quali evidenze? In buona sostanza, da ciò che si può desumere dal contenuto del testo, tutto verrebbe rimandato alla decisione del giudice, chiamato, in quanto tale, ad interpretare discrezionalmente i singoli casi in esame.
Per di più, all’altissimo grado di discrezionalità riconosciuto al magistrato di merito, si affiancherebbe un ulteriore criticità legata all’elevato indice di rigidità della pena, che risulta la medesima in ogni caso. Come approvata a Montecitorio nel suo unico articolo, la legge in questione prevede infatti la reclusione da sei a 12 anni per chi fa o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso “libero e attuale”. Ciò, equivale inevitabilmente ad equiparare sulla carta ciò che in realtà è nettamente diverso nei fatti. Per intenderci, basandosi sul testo recentemente approvato alla Camera, la posizione dello stupratore propriamente detto, ovvero colui che ha brutalmente abusato della sua vittima senza alcun consenso, verrebbe de facto parificata a quella del malcapitato di turno che, nell’ambito di un rapporto di convivenza, dovesse risultare accusato dalla propria partner di aver contravvenuto alla richiesta di revoca del consenso, magari per ragioni legate ad altre problematiche di coppia, o comunque diverse dalla violenza sessuale.
In estrema sintesi, si assisterebbe, da un lato, a un perverso processo di equiparazione del tutto, e dall’altro, lo si rimetterebbe improvvidamente alla piena discrezionalità del giudice di turno. È questo il cortocircuito normativo di una riforma concettualmente condivisibile nel principio, e guai se così non fosse, che sembrerebbe tuttavia presentare non poche criticità, non da ultimo il fatto di affidare ai giudici la piena gestione della sessualità degli individui, con l’aggravante di non riuscire minimamente ad attenuare i casi di violenza di genere.
di Salvatore Di Bartolo