Crisi del vecchio continente: intervista alla politologa Camille Chenaux

lunedì 24 novembre 2025


Come spiegare a chi non vive nell’antico continente cosa significa essere cittadino europeo? Siamo solo stati adulati dell’esistenza di un sentimento comune o c’è del vero sotto le dodici stelle dell’Unione? Se agli albori del trattato di Maastricht erano dubbi sopiti dall’onda lunga del pacifismo, nell’attuale scacchiere internazionale tornano come spettri a bussare alla porta. Sono simili incertezze, oggi, ad alimentare la narrazione di un’Europa di cristallo.  

Nemmeno giovani studenti internazionali, in viaggio nella capitale, sembrano riconoscere dei comuni denominatori nei popoli europei. Lo conferma Camille Chenaux, politologa e professoressa italo-svizzera alla Ies abroad, università americana di Roma, e autrice del volume Crisi dello Stato-nazione e populismi europei, edito con Carrocci (2025). “All’inizio del corso chiedo sempre ai miei studenti se ci vedono come europei o come cittadini delle singole Nazioni. Mi danno quasi sempre la seconda risposta. Non c’è l’idea che noi siamo europei come loro sono americani”.

Interessante è il fatto che anche gli studenti italiani dell’università di Roma Tre, con cui la studiosa collabora, dicono lo stesso. 

Alla luce di tali testimonianze occorre, dunque, una riflessione: se nel percepito comune il cittadino italiano fatica a riconoscersi in chi vive oltralpe, è mai esistita un’identità europea, oltre a quella nazionale?

“Di solito, mi presento come italo-svizzera perché ho la doppia cittadinanza, ma vorrei sentirmi più europea. A sorprendere è, però, un dato: ossia che tra le parole chiave degli studenti americani per definire l’Unione c’è solidarietà, il che fa pensare a una percezione esterna differente rispetto alla nostra”.

Nei trattati europei, in effetti, quello della solidarietà è un tema ricorrente, insieme alla pace. Sono le due pietre angolari del trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993 con il proposito di calcificare attorno all’idea di cittadinanza europea i valori di un’Unione libera, connessa e democratica.

Gli stessi valori che compongono, d’altronde, l’ossatura di uno spirito europeo su cui le istituzioni dell’Unione hanno fondato il progetto Erasmus. Si tratta di una cinghia di coesione cucita dal basso, tra i più giovani, ma anche criticata da molti per essere stata, in realtà, oggetto di sabotaggio dai suoi stessi architetti d’élite.

“I ragazzi sono la risorsa più importante che abbiamo per rilanciare il progetto di integrazione europea” osserva l’esperta. “È un’occasione di dialogo e uno strumento potente per la creazione di quella identità sovranazionale di cui si parla. Dall’alto ci sono sempre state opinioni contrastanti tra un modello federalista e uno più ancorato al potere dei singoli stati. Specie con gli equilibri geopolitici odierni, ci sono diversi partiti populisti che incarnano un ritorno a una maggiore identità nazionale”. 

Prendendo le mosse dalle sue parole non è difficile capire chi oggi racconta di un’Europa vittima degli egoismi nazionali, soffocata da una rivendicata sovranità statale. È davvero così? Se sì, che ruolo hanno i movimenti populisti nell’amplificazione degli eco nazionali? 

“L’Italia conta 59 milioni di abitanti, peraltro è uno dei 5 Paesi più popolosi dell’Unione insieme alla Germania (84.4 milioni). Il confronto con realtà come quella cinese è impressionante: 1 miliardo e 400 milioni di abitanti. Dove vogliamo andare da soli? In un simile quadro occorre avere un’Unione più forte e integrata, altrimenti non contiamo nulla. D’altra parte, è chiaro che i movimenti populisti siano la voce di un malessere diffuso, condizionato, in primis, da un quindicennio di poli-crisi: il crollo finanziario del 2008, la crisi migratoria del 2015, per poi arrivare alla pandemia di Covid e all’invasione russa in Ucraina. In tal senso, questi partiti hanno ragion d’essere, sono un termometro sociale e mostrano un innalzamento di temperatura, a significare che ci sono problematiche su cui intervenire”.

Le considerazioni della professoressa Chenaux, però, non si fermano qui. Se da un lato osserva nei partiti populisti una reazione naturale al difficile oggi, il fatto stesso che essi siano legati a una dimensione nazionale, rende, a suo dire, pressoché impossibile la costituzione di un’alleanza populista trans-nazionale. A conferma di ciò, vi è l’esistenza di tre diversi euro-gruppi della destra populista: “Conservatori e riformisti europei (Ecr), Patrioti per l’Europa (Pfe) ed Europa delle nazioni sovrane (Esn), di cui gli ultimi due sorti nel 2024. Tra loro faticano a trovare agganci comuni”. 

Il contraltare di questo euro-scetticismo è sintetizzabile nell’espressione Stati Uniti d’Europa, appellativo di una coalizione italiana presente nelle scorse elezioni europee. Tra chi li ritiene promotori di una promessa concreta e chi di una mera illusione, come definire, nello scenario odierno, i leader amplificatori del modello federale europeo? Chenaux, in questo, è molto chiara. “Pensare di essere come gli Stati Uniti significherebbe illudersi. Gli States sono nati nel 1776, portano sulle spalle una storia lunga e consolidata. Per noi è diverso, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo sono sorti Stati nazionali come Francia e Italia, pensare adesso di fondere Paesi con un passato, un’identità e una lingua diversi non è una cosa banale. Se aggiungiamo i 12 Paesi che hanno fatto ingresso tra il 2004 e il 2007, gran parte del cosiddetto Blocco orientale, ci rendiamo conto di quanto i 27 membri abbiano esperienze culturali e storiche eterogenee”. 

Tuttavia, anche alla luce di ciò, la sua risposta non è di gettare la spugna, anzi.

“Nel contesto geopolitico odierno, una maggiore integrazione è necessaria per la nostra sopravvivenza, ciò è possibile partendo da riforme istituzionali, specie in vista di futuri allargamenti con i Paesi oggi candidati per l’ingresso nell’Ue. Il primo passo è cambiare il meccanismo di voto all’unanimità (previsto dai trattati europei per determinate materie come la sicurezza comune e la politica fiscale, ndr.), non possiamo continuare a ragionare in termini di unanimità se non vogliamo lo stallo del sistema europeo”.

Si tratta di un’affermazione tutt’altro che banale. L’unanimità nasce a tutela dell’interesse particolaristico degli Stati, un singolo voto contrario costituisce un veto all'adozione di una certa decisione. Negli anni, però, questo sistema si è piegato a veri e propri ricatti da parte di Stati coinvolti su più tavoli negoziali. 

50 miliardi di euro destinati all’Ucraina, nel dicembre 2023, furono bloccati dal veto di Viktor Orban sul bilancio pluriennale dell’Unione, pretendendo, in cambio, lo scongelamento dei fondi per l’Ungheria, accusata a più riprese di violazione dello stato di diritto. Sebbene sotto le pressioni di altri leader europei Orban abbia poi ceduto nel febbraio 2024, è legittimo chiedersi quanto dinamiche simili minano la credibilità dell’UE nello scenario internazionale.

 “Orban è un caso emblematico: tra le prime cose che fece dopo aver ottenuto la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, nel secondo semestre del 2024, ci fu una visita a Mosca, il primo in veste di leader europeo (scatenando una diffusa condanna di slealtà da parte di altri attori dell’Unione, ndr). In assenza di coesione tra gli Stati, il rischio è proprio questo, che ci siano voci diverse in giro per il mondo a rappresentarci”. 

Insomma, far presa nel teatro internazionale non rientra nelle possibilità dell’Ue se al suo interno le liti sono all’ordine del giorno.

Con un conflitto alle porte, infatti, chi promuove un’Europa federale vede, nell’ipotesi dell’esercito comune, una leva per cementare l’unione di più popoli contro un solo nemico. Tra la presentazione del kit di sicurezza per un’autonomia di 72 ore in caso di crisi e il fantasma del riarmo, si sollevano voci di come il tutto sia stato orchestrato ad hoc per distogliere l’attenzione dei cittadini europei dalle crisi interne.

“L’idea di una Comune difesa europea (Ced) non nasce oggi ma nel 1952, prima di tutto allo scopo di creare deterrenza. Con il suo fallimento, abbiamo delegato la nostra difesa all’ombrello statunitense fornito dalla Nato, invece di garantirci una maggiore autonomia in termini militari. La prima messa in discussione di questa scelta fu da parte Altiero Spinelli, uno dei padri dell’Ue, secondo cui eravamo gli stati tributari del comandante atlantico. Il messaggio della difesa è difficile da comunicare, chi vive il quotidiano si sente quasi defraudato di denaro che potrebbe essere speso in politiche sociali invece che in armi. Ma non bisogna dimenticare che la prosperità dei mercati dipende dal grado di stabilità geopolitica, maggiore sicurezza si intende, quindi, anche a livello economico”.

Le parole di Chenaux sembrano trovare riscontro anche nelle reazioni alle immagini circolate sui social dei recenti incontri alla Casa Bianca tra il presidente Trump e i principali leader europei. Non immagini di un negoziato multilaterale, ma di un’Europa a capo chino. È questo il percepito di molti.

Ad aggravare il quadro, non mancano squilibri politici nazionali tali da far arretrare il posizionamento europeo a livello globale.

“Sono in crisi i due motori europei, Francia e Germania. Se Macron, nel suo primo mandato, mirava a elevare il suo Paese a guida dell’Unione, oggi, dopo ben cinque primi ministri sotto la sua seconda presidenza, è del tutto privo di legittimazione nazionale. In Germania, invece, c’è una grande ascesa dell’Afd (Alternative für Deutschland), partito di estrema destra populista, secondo nei sondaggi solo ai democristiani, il che potrebbe costituire un elemento di instabilità a livello governativo nel prossimo futuro”.

Jean Monnet, nell'empireo dei fondatori di un’Europa unita, sosteneva che le crisi sono funzionali all’Unione. Sebbene non sia da biasimare chi vi legge sola retorica, c’è, forse, da aspettarsi un grande passo in avanti nei prossimi decenni? 


di Siria Santangelo