La storia d’Italia tra federalismo e Stato centrale

giovedì 20 novembre 2025


La firma della pre-intesa tra Governo e alcune Regioni del Nord avente l’obiettivo di rendere concreta l’autonomia differenziata riporta al centro del dibattito pubblico una questione che ha gli stessi anni dell’Italia unita: il rapporto, non di rado tormentato, tra Stato centrale e competenze territoriali. È sufficiente sfogliare, seppure per sommi capi, un manuale di storia per apprendere che ogniqualvolta il nostro Paese ha tentato di riconfigurare i propri poteri in senso autonomistico ha incontrato pesanti ostacoli di ordine storico e politico. Eppure, già alla vigilia dell’Unità, l’Italia presentava tutte le condizioni favorevoli a che si scegliesse un ordinamento fondato sul decentramento. Infatti, all’appuntamento unitario giungono tradizioni amministrative diverse quali la burocrazia sabauda del Piemonte, l’accentramento asburgico del Lombardo-Veneto, il modello borbonico del Regno delle Due Sicilie, le autonomie comunali toscane. In tal senso, un esponente di primo piano della Destra storica, Luigi Carlo Farini, forte della lezione di Carlo Cattaneo sugli “Stati uniti d’Italia”, nel maggio 1860 invia una nota al Consiglio di Stato in cui illustra i criteri da utilizzare per il riordinamento amministrativo del Regno.

Egli, dopo avere ricevuto il consenso dello stesso Camillo Benso di Cavour, entra nei particolari proponendo di trovare “un equilibrio tra l’autorità centrale dello Stato e le esigenze dei comuni, delle province e di altri centri più vasti”. In quest’ultimo caso, Farini si riferisce alle Regioni che “devono corrispondere ai centri naturali della vita italiana”. Nei primi mesi dopo la proclamazione dell’Unità (il 17 marzo 1861) il ministro Marco Minghetti tradusse tali sollecitazioni in un progetto che prevedeva un ampio trasferimento di poteri alle realtà territoriali. Non se ne fece, però, nulla. Il Parlamento accantonò il piano Minghetti sulla base di due preoccupazioni: la fragilità di uno Stato appena costituito e la grande spinta disgregatrice lanciata nel Mezzogiorno dal brigantaggio. L’architettura istituzionale che il Regno d’Italia si diede richiamava il modello napoleonico della centralizzazione del comando. Una scelta che ebbe il carattere della necessità storica anche in considerazione del fatto che si prese atto di quanto grande fosse il divario economico e culturale fra il Nord e il Sud del Paese. Il fascismo tacitò ogni forma di discussione sul federalismo come si può bene intendere. Il dibattito riprese nell’Italia repubblicana.

Le Regioni previste dalla Costituzione del 1948 rimasero, però, bloccate per vent’anni prima di divenire una realtà. Una tale “dimenticanza” nasceva dal fatto che forti erano i timori dei grandi partiti di perdere potere, ovvero di cedere comandi, competenze e risorse. Le Regioni vengono, dopo molte titubanze, istituite nel 1970 con poteri limitati e confusi. Né passi in avanti si riescono a fare nel 2001 con la riforma del Titolo V. Una riforma che ha prodotto un sistema incompiuto, generando conflitti a ripetizione fra entità regionali e Stato centrale. L’autonomia differenziata rappresenta l’ennesimo tentativo di ridefinire i rapporti tra Stato e territorio. La pre-intesa fra Governo e Regioni del Nord potrebbe segnare un passo importante per una svolta storica, ma resta anche il pericolo che possa aggiungersi ai molti tentativi fin qui falliti. Tutto dipenderà dalla capacità di sapere trovare un equilibrio tra unità nazionale e diversità regionali. Si tratta del nodo irrisolto che accompagna la storia d’Italia dall’Unità in poi.


di Francesco Carella