lunedì 10 novembre 2025
Dietro l’accordo europeo sul 2040 si nasconde una nuova forma di pianificazione: l’ambientalismo come pretesto per limitare libertà e produzione.
L’Unione europea ha raggiunto un nuovo compromesso climatico, e il termine “compromesso” dice già tutto. L’obiettivo ufficiale – ridurre del 90 per cento le emissioni entro il 2040 – è stato confermato, ma ammorbidito da una serie di eccezioni e flessibilità che ne svuotano il significato reale. Una parte dei tagli potrà infatti essere “realizzata” all’estero, acquistando crediti ambientali da Paesi terzi. Si tratta in buona sostanza di un artificio contabile che consente di proclamare risultati senza modificare nulla di sostanziale: la riduzione effettiva delle emissioni europee diventa secondaria rispetto alla gestione politica della transizione. In altri termini, la realtà economica viene subordinata alla rappresentazione simbolica del potere.
E proprio qui si rivela la vera natura dell’accordo. Dietro l’apparenza di un impegno ecologico, emerge una logica di pianificazione: l’Europa non si limita a fissare obiettivi generali, pretende piuttosto di stabilire metodi, tempi e tecnologie, sostituendo l’iniziativa privata con il controllo pubblico. La tutela dell’ambiente diventa così uno strumento per estendere l’intervento politico su settori che dovrebbero restare liberi.
Non è del resto la prima volta che accade. Ogni epoca ha avuto il suo pretesto morale per imporre disciplina economica: nel Seicento si tassava il sale “per il bene del popolo”, nell’Ottocento si giustificava il protezionismo “per difendere il lavoro nazionale”, nel Novecento si regolavano prezzi e produzione “per garantire la giustizia sociale”. Oggi, lo si fa “per salvare il pianeta”.
Invero, la storia insegna che, quando il potere si ammanta di virtù, la libertà è in pericolo. È il caso, ad esempio, del “massimo generale dei prezzi” introdotto nel 1793 durante la Rivoluzione francese, che, proposto con la pretesa di tutelare il popolo, produsse carestie e mercato nero. Lo stesso è accaduto con i piani quinquennali sovietici, concepiti per modernizzare l’economia e sfociati invece in inefficienza e miseria. Anche “l’equo canone” italiano, propagandato come strumento di protezione per gli inquilini, ha finito per distruggere l’edilizia privata e svuotare interi quartieri. Tutte esperienze accomunate da un errore di fondo: credere che la legge possa sostituire la cooperazione spontanea degli individui, che l’ordine economico possa essere pianificato dall’alto senza sacrificare la libertà.
Nell’epoca attuale, il dirigismo climatico ripete la stessa illusione con strumenti nuovi ma identica presunzione. Le clausole di revisione periodica previste dall’accordo – ogni cinque anni, e potenzialmente ogni due – non rappresentano vera flessibilità, bensì una forma di instabilità istituzionalizzata. Chi investe, chi produce, chi lavora, si trova di fronte a un sistema di regole mutevoli, condizionate da valutazioni tecniche e umori politici. La certezza del diritto, fondamento della convivenza civile e della libertà economica, viene così sacrificata a un obiettivo astratto che nessuno sa misurare con precisione. La pianificazione, come sempre, finisce per colpire chi obbedisce e premiare chi comanda.
A ben guardare, questo meccanismo ricorda la distopia del film Il pianeta delle scimmie, diretto da Franklin J. Schaffner nel 1968 e tratto dal romanzo di Pierre Boulle, considerato tra i caposaldi della fantascienza, dove il potere, travestito da civiltà, si fonda sul controllo del sapere. Nell’opera, le scimmie vietano la ricerca, riscrivono la storia e considerano gli uomini esseri inferiori, incapaci di ragionare. È la stessa logica del potere che teme la libertà perché la libertà produce novità, e questa mette in crisi l’ordine imposto.
Anche nella transizione ecologica europea, la politica si erge a depositaria della verità: decide cosa sia “sostenibile”, quali energie meritino di esistere, quali comportamenti debbano essere incoraggiati o puniti. La conoscenza, che dovrebbe essere libera, viene amministrata; l’innovazione, che dovrebbe nascere dal rischio e dall’iniziativa, viene regolata.
In tale visione rovesciata, la scienza – invece di liberare – diventa un’arma di dominio. L’ambientalismo istituzionale trasforma il sapere tecnico in strumento di potere: i nuovi “sacerdoti del clima” sostituiscono i dibattiti con i dogmi e la discussione pubblica con le sanzioni. In nome della salvezza collettiva, si legittima ogni intrusione nelle scelte individuali.
Per effetto di tutto ciò, la cosiddetta “transizione ecologica” si è così trasformata in un processo di centralizzazione. Non è più la naturale evoluzione dell’innovazione e della concorrenza, ma un piano di riconversione imposto dall’alto. Si vietano tecnologie invece di lasciarle competere, si impongono standard invece di favorire la scoperta di soluzioni più efficienti. È il ritorno del principio autoritario secondo cui la politica deve “guidare” l’economia, come se la conoscenza, la creatività e la responsabilità individuale fossero pericolose.
La libertà economica, invece, è il motore vero del progresso ambientale. È stata la concorrenza, non la burocrazia, a rendere più efficienti le macchine, più puliti i processi industriali, più sicuri i trasporti. Nessun decreto ha inventato il motore elettrico o i pannelli solari: sono nati da imprenditori che hanno rischiato il proprio capitale, non da funzionari che amministrano quello altrui. Eppure, si continua a credere che la soluzione consista nell’aumentare regole e sanzioni, dimenticando che più norme significano meno libertà e meno innovazione.
Dietro la retorica della sostenibilità si cela quindi una realtà di potere. Ogni nuovo vincolo ambientale diventa una nuova leva fiscale, un nuovo mercato di permessi, un nuovo strumento di controllo. Anche la proprietà privata ne esce indebolita: il valore dei beni immobili e produttivi dipende ormai da parametri “ecologici” decisi altrove. La casa, la fabbrica, il terreno non sono più garanzie di autonomia, bensì beni condizionati dalla volontà politica.
L’Europa, che un tempo incarnava il principio della libertà economica, sembra ora preferire la virtù alla responsabilità, il comando alla fiducia, la pianificazione alla concorrenza. Ma non si può salvare il pianeta negando ciò che ha reso possibile ogni progresso umano: la libertà di scegliere.
Una politica ambientale compatibile con la civiltà non nasce da un regolamento, ha origine dal rispetto della proprietà, della conoscenza diffusa e dell’iniziativa individuale. Finché lo Stato pretenderà di governare l’aria e il clima, finirà inevitabilmente per governare anche la vita delle persone.
E quando accade questo, come nel mondo delle scimmie, non c’è più sostenibilità: c’è solo potere.
di Sandro Scoppa