La Consulta incoraggia la finanza allegra delle regioni?

martedì 21 ottobre 2025


L’articolo 1, comma 786, della legge 207/2024 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027) stabilisce che le Regioni a statuto ordinario assicurano un contributo alla finanza pubblica, aggiuntivo rispetto a quello previsto a legislazione vigente, di 280 milioni per il 2025, 840 milioni per ciascuno degli anni dal 2026 al 2028 e 1.310 milioni per il 2029. Il riparto del concorso alla finanza pubblica è effettuato, entro il 28 febbraio 2025, in sede di “autocoordinamento” tra le regioni, formalizzato con decreto del ministro dell’Economia, di concerto con il ministro per gli Affari regionali, sentita la Conferenza permanente Stato-Regioni.

Il suddetto comma 786 e altri connessi sono stati impugnati per illegittimità costituzionale dalla Regione Campania. Con la sentenza 152/2025 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili o non fondate le varie questioni di legittimità costituzionale. La sentenza si segnala per una complessa argomentazione e una complicata esposizione. Generalmente parlando, certe sentenze della Consulta sono scritte purtroppo in linguaggio castale per la setta dei mandarini del giure anziché per il medio comprendonio dei cittadini della Repubblica, in favore dei quali anche la giustizia costituzionale viene pur sempre amministrata.

Detto in soldoni, la Consulta ha dato torto alla Campania e, per l’estensione del giudicato, alle altre Regioni ordinarie che recalcitrano contro il diktat (la legge di bilancio, la sovranità del Parlamento!) dello Stato di “contribuire” a risanare la finanza pubblica, accampando la violazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni. Lo Stato e le Regioni, in sostanza, disputano sull’impiego dei tributi come se fossero cosa loro invece che dell’erario, cioè dei cittadini che li versano, quando li versano. Ennesima prova della fallimentare riforma costituzionale del 2001, che spezzettò la Repubblica in enti l’un contro l’altro armati e generò l’imponente contenzioso Stato-Regioni.

Ma qui, in un articolo di giornale, non interessano le argomentazioni largamente profuse dalla Consulta nella sentenza 152/2025. Qui interessa, per la sua notevole portata politica ed economica, il sorprendente “obiter dictum” contenutovi. Sorprendente sia per l’esplicito sollecito al legislatore (forma di esortazione pedagogica alla quale spesso la Consulta indulge), sia per l’implicita incoerenza con il dispositivo, sia per l’indirizzo politico professato. Perciò l’obiter dictum merita di essere riportato per intero, anche come indizio qualificante la contorta ideologia costituzionale della Consulta in carica.

Scrive dunque la Corte costituzionale: “La totale preclusione per l’intero quinquennio dell’impiego per investimenti da parte delle regioni in disavanzo risulta, in effetti, potenzialmente idonea a determinare, al termine del periodo di applicazione del contributo alla finanza pubblica, eccessivi divari infrastrutturali tra i territori, a causa di una discriminazione tra le regioni che si può riflettere in un pregiudizio al principio di eguaglianza sostanziale”. La Corte, quindi, “ritiene necessario sollecitare il legislatore, per le annualità successive a quella in corso, a rivedere, in una fisiologica dialettica con le regioni orientata al bene comune, l’eccessiva rigidità del meccanismo, consentendo anche alle regioni in disavanzo di utilizzare una parte del contributo per la spesa di investimento”.

Prosegue la Corte: “È pur vero che l’obbligo di evitare la produzione di disavanzi e, comunque, di ripianarli in termini contenuti, secondo le modalità declinate dalle regole statali dell’armonizzazione contabile, consegue ai principi di buona amministrazione, di copertura delle spese e dell’equilibrio di bilancio (sentenza 195/2024)”. E così conclude: “Tuttavia, è anche vero che tali principi non possono diventare “tiranni”, comprimendo del tutto, nella specie, la possibilità della spesa di investimento delle regioni in disavanzo, che è comunque funzionale anche a colmare il grave deficit infrastrutturale che ancora penalizza le potenzialità di sviluppo di diverse aree del nostro Paese.

Anche soltanto sfiorando con la mente le palesi implicazioni dell’obiter dictum è difficile sottrarsi all’amara sensazione che la Consulta, nel mentre ingiunge stentoreamente alle Regioni di pagare il “contributo” allo Stato, sembra poi sussurrare alle loro orecchie che dovrebbero potersi sottrarre alla “tirannia” (sic!) della “buona amministrazione”, della “copertura delle spese”, “dell’equilibrio di bilancio”, purché per il nobile e temerario fine di “colmare il grave deficit infrastrutturale che ancora penalizza le potenzialità di sviluppo di diverse aree del nostro Paese”. Come se, in un’Italia che primeggia con un debito pubblico di 3.082 miliardi, il deficit spending fosse una risorsa da (ri)scoprire, sollecitare, raccomandare a Regioni tanto inconsapevoli quanto riottose.


di Pietro Di Muccio de Quattro