La politica da confronto ideale a conformismo aggressivo

lunedì 13 ottobre 2025


Il conformismo è un comportamento: “Abitudinario, acritico, piatta adesione e deferenza nei confronti delle opinioni e dei gusti della maggioranza o delle direttive del potere”. Possiamo dire che il conformista non pensa: ripete. Di norma l’appellativo conformista viene sempre dato a coloro che rispettano le regole in quanto si intendono funzionali al potere costituito, ma esiste anche il conformismo di chi si oppone al conformismo “della maggioranza”, è un conformismo “della minoranza” che potremmo definire un “conformismo rivoluzionario” cioè un comportamento in cui una persona non solo si conforma alle norme sociali, ma cerca anche di imporre tali opinioni o comportamenti ad altri con un atteggiamento  aggressivo, il tutto funzionale alla polarizzazione ormai caratteristica strutturale del sistema politico e mediatico del Paese.

Lo possiamo notare nel dualismo della politica internazionale: se sei per l’Ucraina devi essere pro-Israele o l’opposto, egualmente se sei pro-Russia devi essere pro-Hamas (intendendo come pro-Palestina) e ovviamente l’opposto. Anche i termini devono essere estremizzati per aver un consenso ignorante, affermare che c’è una guerra “è banale” per il senso comune, mentre un “genocidio” ottiene un maggior impatto emotivo, stessa accusa è stata ipotizzata nel conflitto Russia/Ucraina ma, essendo due eserciti regolari, questa proposta di lettura non ha trovato audience, mentre è oggettivo che la Russia ha invaso l’Ucraina per cui il messaggio mediatico che deve polarizzare è l’aggressione.

I due poli si confrontano e si scontrano utilizzando due messaggi: i pro-Hamas accusano Israele e l’Occidente di essere complici di genocidio, mentre l’Occidente accusa la Russia di aver aggredito l’Ucraina e di voler invadere l’Europa. In questo scontro polarizzato l’obbiettivo non è risolvere il problema cercando di comprendere le motivazioni (perché esse esistono giuste o sbagliate che siano, essendo soggettive), ma è quello di avere un consenso non informato, per cui si attua una comunicazione polarizzante. Personalmente ritengo che la Russia per quanto paese che aggredisce l’Ucraina non abbia tutti i torti, mentre ritengo che Israele si stia difendendo da una guerra strisciante che è esplosa in modo orribile dopo il 7 ottobre.

In fin dei conti è nella storia dell’uomo la ricerca del cattivo da indicare al popolo, anche Gesù subì il pubblico ludibrio, è così atavico questo meccanismo psicologico che garantisce al potere un consenso facile grazie agli utili idioti che si sentono intelligenti. Le parole, per quanto in sé neutre, servono a definire e descrivere la realtà. Tuttavia, attraverso un uso strategico dei media e della comunicazione, il loro significato originario può essere progressivamente modificato o banalizzato. Chi si occupa di marketing ˗ compreso quello politico ˗ sa bene che la nostra percezione della realtà dipende dalle parole che usiamo e dal significato che attribuiamo a loro. Banalizzare una parola ha un duplice effetto: da un lato le si toglie parte della sua forza emotiva originaria, dall’altro la si trasforma in uno slogan ancora capace di attivare reazioni immediate e di mobilitare le persone.

Un esempio emblematico è l’uso contemporaneo dei termini fascismo e fascista (ma in misura minore anche comunismo). Mentre fascismo viene spesso impiegato per definire genericamente qualsiasi atteggiamento percepito come autoritario, perdendo così il suo significato storico preciso, comunismo in Occidente è raramente percepito come autoritario, ma piuttosto come schieramento a favore dei “deboli”.

In entrambi i casi si assiste a una semplificazione linguistica che nasconde la complessità storica e ideologica dei concetti. Fascismo e comunismo sono parole usate per definire un comportamento autoritario umano, facendo perdere a questi termini il loro significato storico e orrendo che hanno avuto per chi li ha vissuti. Inoltre, si omette la consapevolezza che l’autoritarismo è un possibile tipico comportamento di ogni essere umano. Questa manipolazione semantica produce una semplificazione cognitiva di concetti storici complessi che vengono ridotti a etichette emotive, creando polarizzazioni che ostacolano una comprensione critica dei fenomeni sociali e politici, creando l’illusione di un sapere immediato ma superficiale.

Abbiamo molte parole che vengono usate in modo distorsivo: libertà, islamofobia, teocrazia, democrazia, genocidio, razzismo, omofobia, anormalità, destra e sinistra, tutte parole che hanno un significato preciso, ma che possono assumere un senso diverso e, in alcuni casi, opposto o usate come anatema nel momento in cui, banalizzandole, diventano una ideologia e dunque con una carica emotiva.

Destra e Sinistra non sono più le categorie del 900, una volta il termine sinistra, nella prima Repubblica, non era divisivo, anzi lo si usava poco, si impiegavano i termini socialisti, comunisti, extraparlamentari di sinistra, il termine sinistra lo si usava tra le correnti, la sinistra democristiana, quella liberale, quella socialista. L’identità non era data dal termine sinistra, ma l’essere un socialista, un liberale, un democristiano o un comunista, qui sta la bolla mediatica del termine sinistra, un calderone dove c’è di tutto e l’opposto di tutto senza distinzione valoriale, dove basta stare a sinistra per avere ragione.

La libertà è intesa come libertà di fare quello che si vuole, perché dissociata dal termine responsabilità. Come per la democrazia, un insieme di regole che valgono, a proprio comodo per sé stessi, ma si negano agli avversari che diventano nemici e, dunque non hanno diritto al rispetto delle regole condivise. Il termine normalità è un termine scientifico che determina il ripetersi di un evento che capita in certe condizioni, e anormalità ne è l’opposto, non è un termine che dà giudizio su una persona, tranne che gli si dia un significato ideologico che la parola in sé non ha. Termini come genocidio e razzismo rappresentano concetti storicamente e simbolicamente forti, capaci di suscitare un’immediata reazione emotiva. La loro forza evocativa li rende frequentemente strumenti retorici che ostacolano la riflessione critica e il confronto razionale.

Analogamente, omofobia e islamofobia veicolano contenuti fortemente connotati: evocano discriminazione e suscitano empatia, poiché rimandano a esperienze personali o collettive di esclusione sociale. Questa carica emotiva li rende facilmente utilizzabili in modo strumentale all’interno di dinamiche manichee, dove la propria posizione viene presentata come moralmente indiscutibile, delegittimando ogni visione alternativa. Nel caso di islamofobia, la questione è ancora più complessa, poiché il termine, pur segnalando una discriminazione reale, può contribuire a oscurare il dibattito sui rischi connessi a concezioni teocratiche radicali, in contrasto con i principi democratici occidentali.

In tale contesto, il linguaggio diventa un potente meccanismo di polarizzazione: costruisce identità di gruppo artificiali, amplifica le emozioni e ostacola la comunicazione tra le parti. La figura del “traditore” serve a preservare la coesione interna, mentre l’avversario viene rappresentato come nemico. Lo stesso termine pace viene distorto se non sono chiari i contenuti e può essere usato come una clava ideologica, proprio per la sua evanescenza, nei confronti delle vittime.

La potenza dei media e dei social è fondamentale nel gestire queste modificazioni culturali, sia da un punto di vista cognitivo che politico, la mancanza di cultura in generale, il risparmio energetico della memoria e l’assenza di luoghi sociali di dialogo e di confronto, favorisce questa anomia sociale che utilizza le connessioni dei social come fonte di verità. C’è la necessità di “un vigile” nel traffico social che non faccia necessariamente multe, ma sappia controllare le patenti e segnalare agli utenti quelle false o bot. “La tirannia del conformismo è più subdola di quella dei dittatori: perché agisce dall’interno”, diceva Albert Einstein.


di Roberto Giuliano