sabato 11 ottobre 2025
La politica e la cultura inglese non sono state più le stesse. Si può tranquillamente dire che quella messa in atto da Margaret Thatcher è stata una vera e propria rivoluzione culturale, che ha preso il malato d’Europa (l’Inghilterra) e l’ha riportato in alto. La Lady di ferro governò la Gran Bretagna dal 1979 al 1990, trovando al suo insediamento alta inflazione, scioperi continui, un’economia in declino, un welfare con costi non sostenibili. In poco più di un decennio, la Iron Lady trasformò radicalmente il Paese, ridefinendo non solo le sue strutture economiche, ma anche il suo spirito collettivo. Il thatcherismo fu, prima ancora che una dottrina economica, una rivoluzione. L’obiettivo era rifondare la società a partire dall’individuo, riportando al centro valori di responsabilità e autonomia personale. Come dichiarò la stessa Thatcher nel 1981: “Economics are the method; the object is to change the heart and soul” (l’economia è solo il mezzo, l’obbiettivo è cambiare il cuore e lo spirito delle persone). Non bastava risanare i conti pubblici: bisognava cambiare il modo di pensare e di vivere dei britannici, spingendoli a “credere di nuovo nella forza del proprio lavoro”.
L’indipendenza economica, la proprietà privata e il merito dovevano sostituire la dipendenza dallo Stato e quella che la premier definiva “la mentalità socialista che aveva corrotto la Nazione”. Le privatizzazioni divennero così la leva del cambiamento: imprese statali e abitazioni popolari furono vendute a milioni di cittadini, trasformati in piccoli azionisti e proprietari. Era il progetto del popular capitalism, il “capitalismo popolare”, che mirava a creare una Nazione di proprietari, dove il libero mercato diventasse uno strumento di democratizzazione. “Restituire il potere al popolo” – diceva – non significava concedere nuovi diritti politici, ma dare a ciascuno la possibilità di possedere qualcosa, di partecipare alla vita economica e, dunque, alla democrazia stessa. In questa visione, il mercato non era solo un meccanismo di scambio, ma una forza di emancipazione: un “plebiscito quotidiano in cui ogni scelta di consumo rappresentava un voto di fiducia o di dissenso”, ha ragionato Antonio Masala, il senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni e professore associato di Filosofia politica all’Università di Pisa. Tuttavia, per la premier, la libertà economica doveva fondarsi su solide virtù morali: i “valori vittoriani” del lavoro, del risparmio e della disciplina, considerati pilastri di una società sana e responsabile.
Il suo modo di governare, insieme autoritario e carismatico. Per costruire una nazione più libera, Thatcher esercitò un potere fortemente centralizzato, incarnando un liberismo che, paradossalmente, richiedeva una mano ferma. Era un “liberalismo dell’ordine”, capace di suscitare ammirazione e contestazione in egual misura.
di Redazione