mercoledì 8 ottobre 2025
Riflettere su alcuni personaggi e passaggi storici è un’attività necessaria quanto complicata, i cui risultati non devono mai essere scontati o – peggio ancora – a rime politicamente obbligate.
Dal 9 maggio 1978, con il ritrovamento di Aldo Moro ormai privo di vita, il leader del compromesso storico tra Dc e Pci è diventato una delle rare figure politiche che riesce a unire quasi tutti, attorno al tavolo sacro della storia. Pochi osano sbattezzare dall’Olimpo della Repubblica italiana il noto politico nato a Maglie. Tra questi pochi, tuttavia, qualcuno addirittura non lo considera affatto uno statista. La realpolitik sulla storia, al di là delle storiografie ufficiali su quegli anni peculiari, è infatti molto più complessa del manierismo storicamente corretto di una parte del mainstream.
Tutto ciò che storiograficamente risulta troppo “eretico”, al pari delle meditazioni di studiosi più “canonici”, merita di essere letto e ricordato: in una democrazia matura, al contempo liberale e socialpopolare, funziona proprio così.
Quando sul finire degli anni Novanta dello scorso secolo il giornalista e scrittore Roberto Gervaso, in un capitolo del suo libro I sinistri – Da Mussolini a Scalfaro, si chiese se fosse stata vera gloria quella di Aldo Moro, sacche intere d’opinione pubblica rimasero scandalizzate. Persino il mero interrogarsi, se rivolto a un venerato maestro della Democrazia Cristiana ucciso nel 1978 per un’abominevole operazione terrorista, rappresentava un oltraggio agli apriorismi della retorica italiana. Quest’ultima, troppo spesso, ha cucito narrative che al martirio associavano automaticamente la mitizzazione politica.
Una parte acritica della cultura mainstream si rifugiava, e si rifugia ancora, in tali predestinazioni partitocratiche della memoria. Occorre però conoscere tutti gli orientamenti storiografici e di pensiero, prima di deliberare: ciascuno secondo la propria coscienza.
Senza timore reverenziale post mortem, Gervaso nella sua opera ricordava che Henry Kissinger, noto segretario di Stato del presidente statunitense Richard Nixon, dopo aver sentito parlare Moro in un convegno internazionale aveva lasciato la sala borbottando le seguenti parole: “Un uomo che parla così non può che essere un imbroglione e rappresentare un popolo di imbroglioni”. Ciò è senza dubbio una grossissima falsità sugli italiani, che invece costituiscono da sempre un popolo laborioso, con persone che oltre al cervello sanno usare il cuore non solo negli affari privati, bensì anche in quelli d’interesse collettivo. Si riporta questa borbottante citazione di Kissinger anche per dare una plastica evidenza storica su come, nei fatti ed in alcuni frangenti, l’atteggiamento di alcuni leader possa aver nuociuto oppure giovato nell’ambito delle relazioni internazionali, con un giudizio anche sullo stesso ethos popolare da cui presuntivamente quei medesimi leader sono sorti e cresciuti.
Anche il nostro autorevole connazionale Indro Montanelli non aveva risparmiato aspre critiche verso il democristiano del compromesso storico tra Dc e Pci, salutandolo come un generale che, “sfiduciato del proprio esercito, credeva che l’unico modo di combattere il nemico fosse quello di abbracciarlo”. Tra l’altro, lo aveva pure dipinto come un “calvinista al contrario” che invece di credere nella “predestinazione della Grazia, credeva nella predestinazione della Disgrazia”. Lo stesso Gervaso non ha mai avuto una penna sviolinante, per nessuno, e ha descritto Moro come un politico troppo fortunato e troppo sfortunato (in quest’ultimo senso, purtroppo, a causa della sua tragica morte). Ha pure sostenuto che non fosse stato un vero statista, al contrario di come successivamente è stato celebrato da coloro che non mossero un dito per salvarlo. In particolare, ha precisato che non fosse un vero statista “perché chiedeva allo Stato di genuflettersi davanti a chi voleva umiliarlo e abbatterlo”, ma anche “perché scrisse lettere che un De Gasperi, un Einaudi, per non parlare di un Churchill o di un De Gaulle mai avrebbero scritto”.
Quei giudizi affilati e severi, sulle scelte dell’Aldo Moro politico negli anni di piombo, non possono essere letti in maniera semplicistica come cattivisti. Essi non possono essere focalizzati adeguatamente con le lenti della sola post-contemporaneità odierna, né con gli occhiali delle benpensanti post-ideologie sorte dall’unione dei cocci di Dc e Pci.
Le idee anti-moriane presenti nel libro I sinistri risultano argomentate, per fugare nei lettori il sospetto che si trattasse di pura antipatia personale. L’autore, oltre a definire Moro come “il regista, prima occulto, poi dichiarato del compromesso storico, il soffuso artefice, lo sfingeo patrono del consociativismo”, ha attaccato quest’ultimo in quanto corrente di pensiero dannosa. Secondo Gervaso il consociativismo è “la peggior iattura che mai si sia abbattuta sull’Italia dal Dopoguerra, causa d’infiniti guai e di uno sfacelo istituzionale e sociale”.
L’anti-morismo gervasiano appare figlio dell’insofferenza verso quell’opportunista “pacificazione nazionale” che ai tempi della Dc di Moro si celebrava, in salsa agrodolce, insieme ai comunisti più pragmatici, sempre un po’ sospesi tra lotta e voglia di egemonica governance autoreferenziale. Storicamente i comunisti, una volta giunti nelle burocrazie dello Stato, si accomodavano sulle poltrone per scomodare la vita delle generazioni successive, con una spesa pubblica miope e straripante. Consapevole di ciò, Moro avrebbe forse potuto riparare lo Stato da alcune di queste minacce, ma per far ciò avrebbe rischiato di cedere ad altre minacce, nella complessa arte delle dosimetrie decisioniste della politica reale. Sul piano generale, ai pochi occhi critici che oggi oltrepassano le colonne d’Ercole della critica definendo fallimentare il compromesso storico della Dc moriana con il Pci di allora, sicuramente non sfugge che tra le tesi marxiste vi era quella (preoccupante) del superamento dello Stato (definito “borghese”). Tale paventato e ideologico superamento avrebbe dovuto attuarsi attraverso una fase propedeutica di dittatura del proletariato (ancora più preoccupante), in attesa della conseguente aufhebung des Staates, o estinzione dello Stato, di engelsiana memoria.
Il presente lavoro vuole semplicemente fornire tutta una serie di input e spunti, per non arrestare mai il pensiero critico davanti ad alcuna aprioristica cinta muraria, più o meno ciclopica, spesso eretta dai fautori egemonici del pensiero unico ed univoco.
Considerando la partitocrazia spesso autoreferenziale della Dc di alcuni dei predecessori del politico di Maglie, la scelta di addivenire al sopra menzionato compromesso potrebbe recare al personaggio storico di Aldo Moro una strana, peculiare fama: quella del più democristianamente scorretto d’Italia. Alla persona di Moro, senza dubbio, va riconosciuta la sincerità degli intenti culturali d’ispirazione cristiana sociale.
di Luigi Trisolino