venerdì 26 settembre 2025
Il Ddl sul consenso sessuale, proposto da Laura Boldrini, fa penetrare ancora di più nella vita privata: non tutela la libertà, la corrode, trasformando la responsabilità personale in paura di un giudizio penale
L’idea che il rapporto sessuale debba essere libero, consapevole e revocabile sembra, a prima vista, indiscutibile. Nessuno può negare che la violenza sia un crimine odioso e che ogni incontro debba fondarsi sulla volontà reciproca. Tuttavia, il modo in cui questo principio viene tradotto nel disegno di legge presentato da Laura Boldrini a Montecitorio (Atto Camera 1693, “Modifica dell’articolo 609-bis del Codice penale in materia di violenza sessuale e di libera manifestazione del consenso”), appare estremamente pericoloso. Il testo stabilisce infatti che la volontà espressa debba mantenersi immutata per l’intero svolgersi dell’atto e che possa essere revocata in qualsiasi momento e con ogni forma. Un’affermazione apparentemente ragionevole, che però, nel linguaggio del diritto penale, rischia di trasformarsi in un’arma dirompente: si passa dal reprimere la violenza all’introdurre un controllo permanente sull’intimità. Qualsiasi gesto può diventare, retroattivamente, sospetto; una relazione può essere rianalizzata a distanza come possibile reato. La storia insegna che ogni volta che il potere politico ha tentato di normare i comportamenti privati, il risultato è stato sempre lo stesso: più oppressione, meno libertà. Nell’antica Roma, ad esempio, le leggi suntuarie pretendevano di decidere cosa si potesse mangiare o indossare, mentre nel Seicento i regimi puritani imponevano regole morali ferree fino nei dettagli quotidiani. In nessuno di questi casi la società è diventata più giusta o sicura; è diventata soltanto più ipocrita e più timorosa. La letteratura ha colto bene questa tensione: nella sua opera più importante, 1984, George Orwell descrive un potere che non si accontenta di sorvegliare le opinioni, desidera piuttosto penetrare nei sentimenti, trasformando persino l’amore in un atto sorvegliato. È la stessa logica che si intravede in norme che, con il pretesto della protezione, finiscono per colonizzare la sfera più intima. Il diritto penale, in una società che vuole dirsi libera, dovrebbe essere unicamente l’extrema ratio, ossia deve servire per punire chi viola con violenza o frode la libertà altrui. Non può pertanto diventare un manuale di comportamento, né una guida morale imposta dall’alto. Quando il confine del reato si sposta sull’assenza di consenso valutata a posteriori, senza prove oggettive e in contesti per definizione privati, si apre la strada all’incertezza più pericolosa: quella per cui un rapporto consenziente può essere reinterpretato in tribunale come violenza. L’imputato finisce ostaggio di percezioni mutevoli e la certezza del diritto si dissolve.
Come appare evidente, alla base della proposta vi è una concezione paternalista, ideologicamente orientata: lo Stato non si fida degli individui e preferisce regolamentare tutto, diffidando della responsabilità personale. La libertà però non può ridursi a un modulo legale da compilare: è capacità di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, senza delegarla a un’autorità onnipresente. Già Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae ammoniva che Multae utilitates impedirentur, si omnia peccata districte prohiberentur et punirentur lege humana: molte utilità verrebbero impedite se la legge pretendesse di proibire e punire tutti i peccati. È un principio di grande attualità: non ogni imperfezione morale deve diventare reato, pena la paralisi della convivenza civile. Non è poi un caso che Bernard de Mandeville, con la sua celebre Favola delle api, abbia mostrato che persino i comportamenti privati giudicati viziosi possono, se lasciati liberi, produrre benefici per la società. La morale pubblica imposta dall’alto distrugge la spontaneità delle relazioni e impoverisce la vita collettiva. La libertà, invece, trasforma vizi e virtù in dinamiche di crescita e convivenza. È un paradosso che il legislatore di oggi sembra ignorare, convinto che la normazione minuziosa possa sostituire la responsabilità personale. Questo modo di intendere la legge riflette un tratto ricorrente: politicizzare ciò che politico non dovrebbe essere. Così come lo Stato pretende di regolare i contratti di locazione comprimendo il diritto di proprietà, o di condizionare l’attività economica con un reticolo di vincoli, allo stesso modo ora pretende di entrare nella camera da letto. L’argomento è sempre lo stesso: “Lo facciamo per proteggervi”. Nondimeno, l’esperienza dimostra che ogni passo in tale direzione riduce lo spazio della libertà concreta, perché il compito della legge non è plasmare la virtù ma garantire la sfera in cui ciascuno possa perseguire i propri fini, e perché concentrare nelle mani dello Stato il potere di regolare ogni dettaglio della vita finisce per soffocare ogni autonomia.
In definitiva, nessuno mette in discussione la gravità della violenza sessuale. Una società matura, aperta e libera, tuttavia, non la combatte moltiplicando norme che trasformano l’intimità in sospetto codificato. La combatte invece responsabilizzando, educando, punendo con fermezza i veri colpevoli, non generando nuove zone grigie dove tutto può diventare oggetto di processo. Del resto, come già successo in altre occasioni, chi controllerà i controllori? La domanda di Giovenale resta attuale. Perché se la legge pretende di custodire persino i moti dell’animo, a chi resterà la libertà di vivere senza la costante paura di un tribunale? La vera civiltà, bisogna sempre ricordare, non nasce da una legislazione onnipresente, bensì dal rispetto reciproco e dalla responsabilità personale. È qui che si misura la differenza tra una comunità libera e un apparato paternalista. Perché, come ha scritto Ludwig von Mises: “La libertà è indivisibile. Non appena si comincia a restringerla ci si mette su un declivio sul quale è difficile fermarsi”. A sua volta, Friedrich A. von Hayek ha sottolineato: “Libertà non significa solo che l’individuo ha sia la possibilità sia l’onere della scelta; significa anche che deve subire le conseguenze delle proprie azioni e che per esse incontrerà biasimo o lode. Libertà e responsabilità sono inseparabili”.
di Sandro Scoppa