lunedì 15 settembre 2025
Per affrontare la faccenda si possono intraprendere tre vie, di cui due facili, in discesa dato l’ampio consenso generalizzato che riscuotono, e una terza difficile, in salita e assolutamente impopolare, ma non per questo meno vera. La prima via facile è quella per cui si è favorevoli all’omicidio di Charlie Kirk da parte di Tyler Robinson e contrari alla pena di morte di quest’ultimo; la seconda via facile è quella per cui si è contrari all’omicidio di Charlie Kirk da parte di Tyler Robinson e favorevoli alla pena di morte per quest’ultimo. La terza via, quella difficile, invece, è contraria all’omicidio di Charlie Kirk, ma anche altrettanto e risolutamente contraria alla pena di morte per il suo assassino Tyler Robinson.
In questa sede si intende discutere e sostenere esattamente la terza via, proprio perché la più difficile, la meno comune, ma anche e soprattutto perché l’unica fondata su una razionalità giuridica invece che su una passionalità ideologica come le altre due. L’azione omicidiaria di Tyler Robinson può essere compresa secondo due spiegazioni o paradigmi. Per il primo paradigma è egli stesso vittima del sistema in cui vive, cioè la società americana intrinsecamente ferina e largamente armata; in questa prospettiva, la sua responsabilità è profondamente limitata, se non addirittura radicalmente esclusa così da mettere in dubbio l’esigenza stessa che si debba o perfino che si possa punire per l’omicidio che ha compiuto. Per il secondo paradigma, invece, Robinson è pienamente responsabile perché libero e perché ha deciso di esercitare la propria libertà determinandosi per il male, cioè uccidere Charlie Kirk, non potendo così essere sottratto alle inesorabili conseguenze punitive delle sue scelte e delle sue azioni.
Il vero problema, dunque, non è tanto il fatto che Robinson l’assassino sia a sua volta vittima dei condizionamenti della società in cui è nato e cresciuto, quanto piuttosto che non sia riuscito a esercitare la propria libertà nel modo compiuto, cioè per il bene, declinandosi semmai sul versante per la causazione della morte violenta del prossimo. Questo ovviamente non significa dover ridimensionare o escludere l’incidenza delle dinamiche ideologiche che attraversano la civiltà occidentale in genere e quella americana in particolare, e che – come già delineato da queste colonne in passato in riferimento all’attentato a Donald Trump durante la campagna elettorale del 2024 – rivelano la strettissima e quasi genetica correlazione esistente tra l’ideologia progressista e la violenza politica. Il progressismo in occidente, infatti, oramai è diventato una ideologia forte per menti deboli, una pestilenza per l’anima dell’uomo medio, una vera e propria eutanasia della razionalità naturale dell’homo occidentalis: tutto ciò, però, non può giammai divenire una attenuante per fatti di sangue e altri gravissimi casi analoghi, poiché esistono numerosi strumenti per poter resistere intellettualmente e spiritualmente all’epidemia di crisi della ragione che le forze politiche e para-culturali di sinistra diffondono in lungo e in largo in negli Stati Uniti come in Europa.
Dunque, se Robinson, è responsabile, come pare che sia proprio in virtù della sua stessa confessione, è inevitabile che sia punito. Qui però cominciano le difficoltà: come punirlo? In molti, infatti, al di là come al di qua dell’Atlantico, pensano alla pena capitale. Dal punto di vista strettamente legale nello Utah – lo Stato in cui il fatto omicidiario è stato compiuto – la legge ammette la pena di morte, anche se da anni è stata messa in atto una moratoria su tale tipo di regime sanzionatorio. Il problema, tuttavia, non è meramente legale, ma giuridico in senso molto più ampio. Sebbene possa apparire, come ai più appare, che l’omicidio, specialmente un omicidio eseguito con tragica freddezza e per motivazioni ideologiche quale è stato quello in questione, possa e anzi debba essere punito a sua volta con la morte, la questione non è così lineare né semplice.
Il presupposto della punizione dell’omicidio è l’azione con cui qualcuno toglie la vita a qualcun altro; il bene che il divieto di omicidio tutela è il diritto alla vita che è il primo in ordine logico rispetto a tutti gli altri diritti; il fine della pena è retribuire, per chi condivide la prospettiva retributiva della pena, o rieducare, per chi invece condivide la prospettiva rieducativa della pena (come per esempio accade per la Costituzione italiana). Tuttavia, a prescindere dalla teoria della pena che si intende promuovere, la pena di morte si pone in antitesi sia con la dottrina retributiva che con quella rieducativa. Con la seconda, perché il reo condannato a morte non viene rieducato in quanto viene soppresso, venendo quindi privato della possibilità di riformare la propria esistenza e di essere risocializzato, poiché, intanto, appunto, messo a morte. Con la prima, sebbene per molti la pena capitale sia l’espressione più pura e coerente della teoria retributiva, il contrasto emerge ugualmente nello sviluppo di tre fasi logiche tra loro strutturalmente interconnesse.
In primo luogo: la teoria retributiva si fonda su quegli elementi giusnaturalistici e razionalistici che per tradizione hanno sottratto l’esperienza giuridica in genere e quella penale in particolare all’onnipotenza dello Stato, della società o del giudice. Il reo quindi non può essere preso in possesso da nessuno. In secondo luogo: la ratio iuris della punizione dell’omicidio – in modo trasversale alle culture e ai millenni – consiste nell’indisponibilità della vita umana in genere e di quella altrui in particolare, per cui come la vita dell’assassinato non appartiene all’assassino – che per questo deve essere punito – così analogamente la vita dell’assassino a sua volta non appartiene né alla società, né tanto meno allo Stato. La vita del reo è dunque indisponibile.
In terzo luogo: se si accetta – e oramai sarebbe anacronistico e irragionevole non farlo – l’impostazione personalistica dell’ordinamento giuridico, come in effetti avviene più o meno direttamente in tutte le culture giuridiche occidentali, non si può non accettare conseguentemente che anche l’assassino – ogni assassino – per quanto efferato, futile e orribile sia il suo misfatto, è una persona, cioè un ente che gode di una dignità irriducibile (alla sua colpa), incomprimibile e quindi del tutto insopprimibile. La persona del reo non può essere soppressa. Alla luce di tutto ciò è necessario punire Tyler Robinson con la più severa delle pene disponibili, ma non al prezzo di sacrificare agli altari della rabbia della folla perfino le ragioni del diritto che presiedono sia alla tutela dei diritti della vittima che a quelli del suo aggressore e che nessuna istanza o istituzione o motivazione consentono di ignorare.
Esattamente su questa labile e sottilissima linea, che a molti oggi sfugge, si perimetra quel confine impalpabile, ma essenziale che distingue da un lato la barbarie che strilla crucifige e, dall’altro lato, la civiltà del diritto che invece sussurra alla coscienza del giurista la misura della giustizia il cui primo canone è, per l’appunto, il neminem laedere.
di Aldo Rocco Vitale