Meloni al Meeting: retorica, propositi e incoerenze dirigiste

venerdì 5 settembre 2025


Il discorso di Giorgia Meloni al Meeting di Rimini del 2025 ha avuto una grande risonanza, soprattutto perché ha galvanizzato il pubblico presente al quale ha offerto la sua visione per il futuro dell’Italia e dell’Europa. La premier è stata accolta con calore ed entusiasmo, ha saputo usare una retorica efficace, ispirata alla citazione di T.S. Eliot “nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi” ed ha fatto trasparire un’immagine di leadership decisa in un mondo percepito come caotico. Tuttavia, al di là dell’immediato quanto fugace entusiasmo, un’analisi più approfondita del suo intervento rivela contraddizioni e tensioni che mettono in luce le problematicità di una visione politica che, sebbene in alcuni passaggi può anche essere condivisibile per esempio sul ruolo dell’Italia e dell’Europa nel mondo, appare, oltre che difficilmente realizzabile, critica per lo spirito statalista che la anima e contraddittoria per le oscillazioni armoniche che compie tra nazionalismo ed europeismo.

La Meloni, nel suo discorso, ha posto un forte accento sulla cooperazione multilaterale, sul dialogo, sui partenariati con l’Africa e sull’importanza dei negoziati di pace, in particolare in Ucraina e Medio Oriente. Belle affermazioni che tuttavia, rischiano di scontrarsi con le dinamiche di potere concrete che fanno apparire le sue professioni di ottimismo come effimere, anche perché per esempio il suo generico rimbrotto ad Israele per quanto sta accadendo a Gaza si ferma lì e non dice cosa di concreto il suo governo ha intenzione di fare per fermare la guerra o almeno per strappare un tregua per salvare i civili e liberare gli ostaggi di Hamas, magari proponendosi come mediatore tra le due parti visto le buone relazioni sia con lo stato ebraico che con le componenti palestinesi.

Sul fronte ucraino presto potrebbe rendersi peraltro conto che il mantra del “noi non mandiamo soldati a Kiev, ma sosteniamo Volodymyr Zelens’kyj” non produce effetti concreti ai fini della stabilizzazione dell’area. E, salvo imprevisti, difronte alla pervicacia guerresca russa, i paesi volenterosi, tra cui pure l’Italia, che si sono riuniti nello studio di Donald Trump a Washington dovranno scegliere tra “il disonore o la guerra”, tra un’Unione Europea insignificante o una federazione di 500 milioni di anime, simile ma non uguale agli Stati Uniti d’America, capace anche di intervenire militarmente oltre che economicamente nei vari teatri di guerra. Probabilmente (ci auguriamo di no) si porrà il dilemma se cedere alla Federazione Russa perdendo quella residua credibilità che ancora gli europei hanno o sostenere direttamente l’Ucraina anche a costo di un’escalation militare. “Tertium non datur”. D’altronde la vicenda è stata tirata troppo alla lunga da ambo le parti per arrivare ad una composizione del conflitto senza passare da una sconfitta o se volete da una vittoria militare. Troppo sangue, molto odio e grandi interessi per guardarsi negli occhi. E le ultime provocazioni del Presidente Putin lo dimostrano.

Poi va rilevato che allo stato attuale l’auspicio di Giorgia Meloni di un’Unione Europea protagonista appare quasi irrealistico perché si scontra con i limiti strutturali della stessa unione, come la divergenza di interessi nazionali tra gli Stati membri. Anche perché la stessa leader di Fratelli d’Italia ha sempre posto l’accento sulla sovranità nazionale come orizzonte politico, palesando così un’evidente contraddizione tra il proposito di un continente coeso e l’altrettanto manifesto richiamo alla “nazione”. Ma sotto questo cielo l’Italia “modello di stabilità” è più un’autocelebrazione che un dato di fatto, data la fragile posizione geopolitica, economica e militare del Paese.

L’ambiguità tra apertura e chiusura, tra cooperazione e competizione, tra europeismo e nazionalismo, mina la coerenza e l’efficacia della politica estera del governo. Sul fronte interno il discorso del presidente del Consiglio ha sottolineato la necessità di politiche pubbliche estese, investimenti statali e riforme di ampio respiro. Pur criticando la burocrazia, la premier ha proposto un ruolo centrale dello Stato nell’economia, nel lavoro, nella famiglia e nell’educazione. Questo approccio paternalistico verso la società è il contrario dell’ordine spontaneo, che sarebbe auspicabile, il quale nasce e si sviluppa senza pianificazione. Peraltro, Giorgia Meloni, trascura il fatto che un tale interventismo rischia di soffocare l’efficacia e la fluidità del mercato oltre che le libertà individuali. E in questo contesto che lei lancia insieme a Matteo Salvini la proposta di un nuovo “piano casa” questa volta solo per giovani, che riecheggia quello di Amintore Fanfani ai tempi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale.

Il vecchio e il nuovo progetto presentano un’impostazione fortemente dirigista e statalista, assegnando un ruolo preminente allo Stato in campo abitativo. Il Piano Fanfani, nato nel secondo dopoguerra, fu esplicitamente concepito come uno strumento di politica economica e sociale basato su un’organizzazione centralizzata, affidata a enti specifici come la Gestione Ina-Casa. L’obiettivo era non solo la costruzione di nuove abitazioni, ma anche la piena occupazione degli operai con un intervento pubblico massiccio e diretto nell’economia. Questo intervento implicò una pesante gestione burocratica e un approccio top-down poco flessibile rispetto alle realtà territoriali e alle esigenze sociali emergenti.

Va detto però che Fanfani lanciò il suo intervento nel 1949 in un’Italia da ricostruire perché uscita dalla Seconda guerra mondiale sconfitta e demolita e con una grande forza lavoro giovane e poco qualificata da impiegare. Politicamente poi la Democrazia cristiana, il partito di Fanfani, era tallonata dal Partito comunista di Palmiro Togliatti che pescava nel bacino elettorale dei lavoratori e dei disoccupati soffiando sul fuoco del disagio e della povertà post bellica. Oggi ci troviamo in una situazione esattamente opposta: non dobbiamo ricostruire nulla (fortunatamente), abbiamo un patrimonio edilizio consistente, siamo un popolo con bassa natalità, di pensionati e di giovani molto qualificati che cercano un lavoro specializzato e professionalizzato. Inoltre non c’è un movimento politico forte come lo era il Pci che difende le esigenze dei disoccupati, che peraltro sono sempre meno, perché la sinistra ha preferito dedicarsi ad altro come il presunto “patriarcato” o l’ecologismo gnostico (un approccio ideologico all’ambientalismo che privilegia visioni astratte e dogmatiche e molto spesso anti industriali).

Poi va detto che il “Piano per l’incremento dell’occupazione operaia” realizzò, come criticato al tempo da Giò Ponti, parallelepipedi senz’anima, privi di inventiva, di un’identità architettonica distintiva e senza “bellezza e civiltà”. Erano agglomerati urbani slegati dal contesto e privi di una loro essenza anche perché i progettisti furono espropriati della loro creatività in nome dell’omologazione e della rapidità di realizzazione dei fabbricati, ovviamente non mancarono le eccezioni e qualcosa di buono fu pure realizzato come gli insediamenti di Valco San Paolo, del Tiburtino e al Tuscolano a Roma secondo lo stile architettonico neorealista con il contributo di grandi progettisti italiani. Fu una risposta all’inurbamento selvaggio che si verificò nel dopoguerra verso le grandi città, per esempio a Roma fra il 1945 e il 1975 arrivarono un milione 755mila persone che avevano bisogno di alloggi dignitosi. Era un’altra Italia.

Ma riproporre oggi un nuovo “piano casa”, con la crisi demografica che investe l’Italia e non solo, grazie anche ad anni di demonizzazione della famiglia naturale come nucleo fondante come lei stessa ha detto, ma senza nemmeno tentare di mettere in discussione con atti concreti quella cultura edonistica che scoraggia la natività e la genitorialità, e con interi borghi disabitati ed abbandonati, serve solo a nascondere evidenti difficoltà di azione che Marcello Veneziani ha evidenziato in un recente articolo dal titolo “Grandi idee, piccoli fatti” uscito su La Verità il 29 agosto 2025. Peraltro la Meloni dovrebbe fare una seria quanto necessaria riflessione sul suo ceto dirigente come dice Veneziani, anche se lei glissa su questo macroscopico fatto.

E tutto questo strombazzare di buoni intenti si riduce poi al consueto piccolo statalismo italiano, che come pannicello caldo va sempre bene in ogni stagione di crisi. Sarebbe invece utile promuovere un ruolo dello Stato da facilitatore e garante, più che da pianificatore unico, valorizzando l’intervento dei mercati, delle aziende private e dei singoli individui. Invece di un piano casa centralizzato si potrebbero promuovere partnership pubblico-private che incentivano l’innovazione architettonica e la sostenibilità, coinvolgendo progettisti locali e giovani professionisti per rivitalizzare magari i quartieri disabitati dei piccoli centri italiani.

Un altro elemento controverso nel discorso della Meloni è quello dell’identità che lei vede come un la risultante di valori immutabili e “nativi” che vanno difesi da nemici interni ed esterni. Questa impostazione però trascura le diverse identità delle società contemporanee che invece sono dinamiche e interconnesse. La polarizzazione di matrice anche lì gnostica tra “noi” (Occidente) e gli “altri” (Oriente) indebolisce il dialogo interculturale, ponendosi in aperta contraddizione con il messaggio di inclusione e universalità del cristianesimo stesso. In definitiva, l’intervento di Meloni al Meeting di Rimini si è rivelato un buon esercizio di oratoria, capace di suscitare consenso e applausi da un’assemblea amica anche per la sua capacità di connettersi con un pubblico legato a valori cristiani e poco più. Le contraddizioni emerse, tra cooperazione internazionale e riaffermazione del potere nazionale, interventismo statale e sussidiarietà, identità rigida e necessità di pluralismo, evidenziano una visione che fatica a trovare coerenza, per questo le suggeriamo prudenza nelle affermazioni e chiarezza nelle azioni. Meglio rimanere in porto quando non si sa dove fare attraccare la nave soprattutto quando fuori c’è la tempesta.


di Antonino Sala