Morale e politica

lunedì 25 agosto 2025


La tenzone fra giurisdizione e politica segna ormai da molti decenni la vicenda pubblica nel nostro Paese. Vale la pena di sorvolare sugli aspetti contingenti legati agli ultimi episodi di cronaca, per cercare di focalizzare l’attenzione sulle radici, diciamo così, culturali di tale scontro. Negli scritti politici, Benedetto Croce osserva che “un’altra manifestazione dell’ignoranza circa le cose della politica è la continua richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”. Dopodiché precisa che “si tratta di un ideale che alberga nell’animo degli imbecilli e che l’onestà politica risiede nella capacità politica”. Croce, forte della lezione di Niccolò Machiavelli, individuò nella netta distinzione fra sfera della morale e sfera della politica la cifra indispensabile per formulare un giudizio sereno sull’attività pubblica.

Alla luce di tali considerazioni si può meglio comprendere l’entità dell’errore politico compiuto nei primi anni Ottanta da Enrico Berlinguer, quando, nell’affannosa ricerca di una strategia per rilanciare il Partito comunista dopo il fallimento del compromesso storico, individua nel terreno morale lo strumento privilegiato su cui puntare per avviare una nuova stagione politica. Il segretario del Pci, trascurando le conseguenze inintenzionali delle sue scelte, getta le basi per la nascita del populismo di sinistra e crea le condizioni favorevoli per una espansione abnorme del potere giudiziario. Una scelta che impegna il potente establishment culturale della sinistra comunista nell’accreditare una narrazione della storia repubblicana come un susseguirsi di azioni corruttive perpetrate sia dalla classe politica che dalla società civile. Va da sé che l’unica eccezione la si trova fra i protagonisti della “diversità morale”, per l’appunto i militanti e i dirigenti comunisti. La trasformazione del conflitto politico in scontro di ordine etico porta nel giro di poco tempo a una drastica e progressiva riduzione dell’autonomia della politica (intesa come spazio in cui operano i legittimi rappresentanti del cittadino elettore) a vantaggio del potere giurisdizionale.

In un contesto culturale siffatto, dove il risultato politico viene penalizzato in nome della morale, non deve stupire che la magistratura, soprattutto nella sua espressione requirente, diviene protagonista di primo piano della vita politica fino a condizionarne tempi e modi di operare. I magistrati da “bocca della legge” si trasformano in “guardiani della virtù”. In ragione di ciò, “il pericolo che si corre è quello di doversi confrontare – si legge in La Democrazia giudiziaria di Carlo Guarnieri e Patrizia Pederzoli – con un potere senza responsabilità democratica. Se si rinuncia alla regolazione istituzionale il rischio è quello di lasciare il campo libero ad altre e più opache forme di influenza”.

La legge costituzionale di riforma della giustizia (avviata alla terza delle quattro letture previste) che prevede la netta separazione fra attività requirente e giudicante è un serio tentativo teso a ristabilire un equilibrio fra legittimità della decisione politica ed esercizio della giurisdizione. Lo scopo che ci si prefigge è quello di ridurre lo spazio dove è possibile esercitare “opache forme di influenza”. Il giorno del referendum sapremo quanto gli italiani abbiano compreso il trucco dell’onestà e si siano riconciliati con la politica intesa nel senso crociano di capacità effettuale.


di Francesco Carella