Destra e sinistra, due parole inutili: il liberalismo è altrove

venerdì 8 agosto 2025


Non è una via di mezzo, ma una via altra: quella dell’individuo contro ogni potere che vuole guidarlo, correggerlo, sostituirlo.

Nel Belpaese, le parole “destra” e “sinistra” continuano ad affollare i dibattiti televisivi, le dichiarazioni dei leader, i titoli dei giornali. Ma cosa significano oggi? La cosiddetta destra, che prometteva meno tasse e più libertà, governa invece tassando e sussidiando come prima, e imponendo tetti, divieti e dirigismo come se fosse un governo prodiano. La cosiddetta sinistra, che si ammantava di progressismo e diceva di voler difendere i deboli, continua a proporre patrimoniali, affitti calmierati, limiti alla proprietà privata, come se la storia non avesse mai smentito i suoi errori. Nel mezzo, i cittadini osservano un potere che cambia bandiera, ma non metodo.

Già molti decenni fa José Ortega y Gasset ha messo in guardia contro la vuotezza di queste etichette. Ha infatti ammonito: “Essere di sinistra è, come essere di destra, uno degli infiniti modi che l’uomo può scegliere per essere un imbecille: entrambi in effetti sono forme della emiplegia morale”. Una sentenza sferzante, che è adesso più attuale che mai, in un contesto in cui le differenze tra i due campi si riducono alla gestione alternata di uno stesso potere burocratico e invasivo.

In realtà, il vero spartiacque politico non è tra destra e sinistra, è tra chi vuole uno Stato che comandi e chi vuole invece individui liberi di scegliere. Lo ha scritto Karl R. Popper a chiare lettere: “Il problema del controllo dei governanti e della limitazione dei loro poteri è in sostanza un problema istituzionale, il problema insomma di dar vita a istituzioni capaci di impedire anche ai cattivi governanti di fare troppo danno”, che in sostanza rimanda alla grande questione, ossia non al “chi debba comandare”, ma come “controllare chi comanda”, cioè come limitare il potere. E nel nostro Paese questo potere non lo si limita quasi mai. Lo si invoca. Lo si rafforza. Lo si sacralizza, purché sia il proprio partito a gestirlo.

Chi è al governo promette semplificazioni, eppure produce regolamenti. Afferma di voler rilanciare l’impresa, ma vara misure di segno opposto, come crediti d’imposta per pochi e nuovi ostacoli per tutti. Sostiene di ridurre le tasse e, nonostante ciò, aumenta le imposte locali o inventa nuovi obblighi, come il “listino prezzi” per sanare gli immobili. A sinistra si sogna addirittura una nuova Iri, a destra una nuova Cassa per il Mezzogiorno. Entrambe si inchinano alla logica perversa della politica come dispenser di privilegi e risorse.

Il liberalismo autentico, com’è evidente, è completamente altrove. Non è un compromesso tra Meloni e Schlein, tra Salvini e Conte. È una rottura. Non vuole più Stato, bensì più spazio per la persona, più cooperazione sociale volontaria. Non promette uguaglianza nei risultati, vuole invece rimuovere gli ostacoli che impediscono ai talenti di emergere. In Italia detto messaggio è difficile da far passare perché per decenni siamo stati educati all’idea che ogni problema richieda una legge, un contributo, una cabina di regia.

Esso, inoltre, non è una tecnica di governo tra le tante. È una scelta morale e politica precisa: quella di limitare volontariamente il potere anche quando se ne dispone. Non impone un modello di vita, non pretende uniformità di valori, non cerca il consenso assoluto. Al contrario, lascia spazio a chi dissente, protegge chi si distingue, difende il diritto di esistere e di esprimersi anche di chi si oppone alla maggioranza. In questo senso, è la più alta forma di civiltà istituzionale: non perché tolleri il conflitto, ma perché lo contiene senza annientare l’altro. È la rinuncia all’onnipotenza, è il rifiuto di convertire la forza in dominio. È una dottrina, non un dogma rigido, che vive nel pluralismo e si realizza nel rispetto radicale della persona, non nell’omologazione imposta da chi comanda.

Il liberalismo è, in ultima analisi, l’istituzionalizzazione della libertà individuale di scelta, conseguita tramite la limitazione della sfera d’intervento del potere pubblico. Tuttavia, per comprendere detta logica occorre risalire a una tradizione intellettuale che affonda le sue radici nell’illuminismo scozzese e nella lezione di pensatori come Smith, Ferguson, Hume. È lì che nasce il principio della dispersione della conoscenza: nessuno detiene verità assolute e l’ordine sociale più efficace non è quello costruito dall’alto, bensì quello che emerge spontaneamente dalla cooperazione volontaria tra individui.

Tutto ciò si basa su una realtà tanto semplice quanto spesso ignorata: l’uomo vive in una condizione permanente di scarsità. Scarsità di mezzi, di conoscenze, di tempo. Per sopravvivere non ha altra scelta che cooperare con altri, sebbene questa cooperazione non sia sempre stata la via dominante. Per secoli, la risposta prevalente alla scarsità è stata la violenza: la rapina, la conquista, la spoliazione. Gli Stati nacquero come formazioni patrimoniali, come domini esercitati da una ristretta élite che imponeva tributi e obbedienza per assicurarsi il proprio benessere.

La storia è passata da società dominate dalla forza a società rette dal diritto solo quando si è riconosciuto che lo scambio pacifico produce più benefici della predazione. L’economia si è separata dalla politica, e quest’ultima ha perso la sua funzione spogliatrice per diventare, idealmente, produttrice di sicurezza. Dove vige l’uguaglianza davanti alla legge, nessuno è costretto a subire permanentemente la subordinazione altrui. La società civile acquista così autonomia, lo Stato arretra, e la libertà individuale può finalmente prosperare.

Il liberalismo è quindi teoria della limitazione del potere perché individua nella cooperazione volontaria l’unica vera alternativa alla sottomissione. Il che significa non solo libertà di parola o di religione, ma soprattutto libertà di scegliere, di possedere, di contrattare, di intraprendere. E ciò alimenta un’economia più dinamica e, nel contempo, anche un gigantesco processo di mobilitazione delle conoscenze disperse, una continua esplorazione dell’ignoto, una permanente correzione degli errori.

Questa è l’essenza stessa del pensiero liberale, che Antonio Martino ha saputo riassumere con rigore e passione: “Essere liberale oggi significa sapere essere conservatore, quando si tratta di difendere libertà già acquisite, e radicale, quando si tratta di conquistare spazi di libertà ancora negati. Reazionario per recuperare libertà che sono andate smarrite, rivoluzionario quando la conquista della libertà non lascia spazio ad altrettante alternative. E progressista sempre, perché senza libertà non c’è progresso”.

La dottrina che pone alla base la libertà individuale non è pertanto una sfumatura ideologica tra i due poli. È una filosofia politica compiuta. Non chiede ai cittadini di adorare la nazione, né di sacrificarsi per la giustizia sociale. Chiede solo che ognuno possa vivere come meglio crede, senza essere costretto a finanziare, subire o giustificare l’arbitrio di altri. “Il liberalismo – ha magistralmente sintetizzato Ludwig von Mises – non è una teoria organica; non è un dogma rigido. È il contrano di tutto questo: è l’applicazione delle teorie scientifiche alla vita sociale degli uomini”. A sua volta, Friedrich A. von Hayek ha sottolineato che: “Il liberalismo […] è inseparabile dall’istituzione della proprietà privata, che è il nome che noi diamo di solito alla parte materiali di questo dominio individuale protetto”.

Nel vuoto culturale della politica italiana, in cui le parole vengono svuotate e riciclate con cinismo, la visione espressa di citati pensatori resta l’unica coerente e proprio per questo è spesso esclusa, caricaturata o ignorata. Ma chi continua a pensare che lo Stato sia la soluzione, finisce sempre per farne il problema. E chi pensa che la libertà sia un lusso, è destinato a vivere senza: “Chi nella libertà cerca qualche altra cosa al di fuori di essa – ha scritto Alexis de Tocqueville – è nato per servire”.


di Sandro Scoppa