lunedì 4 agosto 2025
I precedenti di Kenya e Seychelles
La decisione della Corte di giustizia europea che rilascia ai singoli giudici la designazione dei “Paesi sicuri” di provenienza dei migranti ha suscitato non poche perplessità. Frammentazione del diritto internazionale, elementi di cognizione che possono avere organi dell’Esecutivo ma non i giudici, impossibilità di esternalizzare la giurisdizione sono tra le principali preoccupazioni che ha destato la sentenza. Quel che più sorprende però è che qualche anno fa la Corte di giustizia europea in sede di controllo di legittimità sull’accordo tra Unione europea e Kenya per trasferire nel Paese africano la giurisdizione e l’eventuale detenzione di cittadini somali accusati di pirateria, nulla ebbe da eccepire. Era l’anno 2009 e il fenomeno della pirateria nel Corno d’Africa e al largo delle coste somale aveva raggiunto un livello di recrudescenza tale da ricorrere a misure estreme per prevenire e reprimere il fenomeno. Su quella rotta una nave su tre subiva un attacco dai pirati, quasi tutti provenienti dalla vicina Somalia, ove le autorità statali in collasso a causa della guerra civile non riuscivano a controllare la situazione, né tantomeno a perseguire giudizialmente le persone coinvolte.
In esecuzione a varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza, forze navali di Stati e organizzazioni internazionali furono inviate nel Golfo di Aden a protezione del traffico mercantile in transito in quelle acque, e anche l’Unione europea – su pressione degli armatori danesi, olandesi e tedeschi – decise di intervenire con la missione militare Atlanta, che ebbe anche il compito di scortare le navi del Programma alimentare mondiale (Wfp). Ben presto emerse però il problema del trattamento dei pirati catturati. Per il principio della giurisdizione penale universale stabilita dal Diritto del mare, qualsiasi Stato che cattura i responsabili dell’attacco in alto mare ha facoltà di giudicarli presso i propri tribunali nazionali. Ma nessuno dei Paesi partecipanti voleva portarsi a casa i pirati per sottoporli a processo, sia per le difficoltà nella traduzione presso i tribunali competenti, che per il timore che essi potessero chiedere asilo come rifugiati politici. Molti Paesi procedettero così alla negoziazione di intese bilaterali con uno Stato terzo della regione disponibile ad assumersi l’onere della giurisdizione. Anche l’Unione europea seguì quella linea, individuò il Kenya come Paese idoneo a soddisfare l’esigenza e sottoscrisse con esso un accordo per trasferire la giurisdizione e l’eventuale detenzione dei pirati catturati dalle navi della propria missione. Ovviamente, l’accordo prevedeva la garanzia dell’equo processo e del rispetto dei diritti umani, compreso il divieto della pena di morte, la presunzione di innocenza, l’assistenza consolare a spese dello Stato di bandiera e ben presto le autorità giuridiche dell’Ue espressero soddisfazione per l’efficace esecuzione dell’intesa.
A seguito delle difficoltà dovute all’alto numero di pirati da giudicare in Kenya, l’Ue siglò poi un altro analogo accordo con la Repubblica delle Seychelles il 30 ottobre 2009. Alla luce degli adattamenti giuridici descritti, che quando si vuole si apportano, si può pertanto ben affermare che la cooperazione internazionale e l’evoluzione del Diritto internazionale possono contribuire a individuare gli strumenti idonei a tutelare l’interesse collettivo degli Stati di fronte a nuove problematiche emergenti. L’accordo siglato dal Governo italiano con l’Albania pare che non offra invece adeguate garanzie costituzionali. Probabilmente, Kenya e Seychelles per i giudici europei sono Paesi più affidabili in materia di diritti umani e protezione dei detenuti.
di Ferdinando Fedi