venerdì 18 luglio 2025
Centoquindici anni or sono, Luigi Einaudi scriveva come l’unico obbligo del docente universitario fosse quello di ricercare la verità e che tale ricerca implicava necessariamente l’assoluta libertà. “L’unica guarentigia del progresso scientifico – osservava – sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti” (Per la libertà di scienza e di coscienza, Corriere della Sera, 7 dicembre 1910). Da ciò discendeva la richiesta di assicurare la libertà d’insegnamento anche a coloro che avessero aderito ai “partiti estremi, cattolici temporalisti, socialisti, repubblicani”, partiti che si prefiggevano il sovvertimento delle istituzioni liberali. Coloro che ritengono che Einaudi avesse ragione e che quindi l’intensità dello sviluppo scientifico sia direttamente proporzionale al grado di libertà garantita, non possono allora non auspicare la piena libertà di parola (non solo, ça va sans dire, nell’Accademia, che la verità può essere perseguita anche al di fuori di essa) ai sostenitori di ogni ismo e di ogni anti. (Neo)fascismo, compreso, evidentemente, che, ad esempio, a un filosofo della politica che dovesse considerare il regime antidemocratico preferibile a quello democratico, un collega dovrebbe replicare rilevando eventuali aporie e debolezze delle argomentazioni addotte; null’altro, e certamente non provvedimenti volti a ridurre l’interlocutore al silenzio.
Questo dovrebbe essere, einaudianamente, il compito dello scienziato, teso, in quanto tale, alla ricerca della verità, che mai si dà una volta per sempre, e non alla corroborazione e legittimazione del sistema politico-istituzionale del momento (democratico o antidemocratico che sia). E il compito della classe dirigente politica? Se questa non è votata, comprensibilmente, alla ricerca della verità scientifica ma al consolidamento dell’ordine istituzionale vigente (e quindi, se questo è democratico, ad ostracizzare le opposizioni antidemocratiche e, viceversa, a trattare come hostes quelle democratiche se è antidemocratico), non può stupire che anche il regime più liberale, più generoso in tema di libertà di parola, voglia fissare dei paletti, delle colonne d’Ercole da non superare, pena la messa al bando dalla polis.
Un dissidio incomponibile quindi tra dominio della scienza e quello della politica? Forse no, a dare retta alle considerazioni sviluppate da Hannah Arendt in un passo di Verità e politica (Torino, Bollati Boringhieri, 2004 (edizione originale del 1967): “Nella misura in cui l’Accademia si ricorda delle sue antiche origini, essa deve sapere di essere stata fondata dal più determinato e influente oppositore della πόλις. Certo, il sogno di Platone non si è realizzato: l’Accademia non è mai diventata una controsocietà (…). Ma ciò che Platone non ha mai immaginato è diventato vero: l’ambito politico ha riconosciuto che, in aggiunta all’imparzialità richiesta nell’amministrazione della giustizia, aveva bisogno di un’istituzione esterna alla lotta per il potere. Che questi luoghi d’insegnamento superiore siano in mani private o pubbliche non è di grande importanza; non solo la loro integrità, ma la loro stessa esistenza dipende in ogni caso dalla buona volontà del governo. Verità molto sgradite sono emerse dalle università, e sentenze molto sgradite sono state più volte emesse dalla magistratura (…). Eppure le probabilità che la verità prevalga in pubblico naturalmente sono accresciute di molto dalla mera esistenza di tali luoghi (…). Ed è difficile negare il fatto che, almeno nei Paesi con un governo costituzionale, l’ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere” (pagine 73-74).
Se (e solo se) Einaudi e Arendt hanno ragione, se il riconoscimento, da parte del potere, dell’università come “zona franca” ha storicamente promosso il progresso scientifico senza pregiudicare la stabilità dei regimi liberaldemocratici, che gli scienziati la difendano allora quest’oasi senza regole (se non quelle della deontologia professionale) e considerino il collega che dice l’indicibile come il tesoro più prezioso da preservare.
di Luca Tedesco