Una guerra tutta interna alla sinistra

venerdì 20 giugno 2025


L’affluenza al 30 per cento indica un epocale fallimento: rappresenta l’evidenza di come gli italiani non si siano lasciati irretire dalla propaganda e che abbiano scelto di non farsi usare per una trovata di sterile opposizione, e soprattutto irrobustisce il governo a discapito chi puntava a strumentalizzare la consultazione. Un flop che parla chiaro ‒ con grande rispetto per chi è andato a votare: l’astensione non è una sconfitta della democrazia ma una sconfitta dei promotori dei quesiti referendari, sempre che la difesa della democrazia non sia una bandiera e non coincida con la difesa del campo largo.

Una sconfitta politicamente catastrofica scaglionata per obiettivi minimi decrescenti: volevano raggiungere il quorum e non ci sono riusciti; in assenza del quorum volevano mandare un messaggio al governo e non ci sono riusciti; in assenza del messaggio volevano dimostrare di sapere allargare il proprio bacino rispetto al 2022, e non è successo neanche questo.

La verità è che, senza dietrologie, in una guerra tutta interna alla sinistra Landini ha voluto il referendum per celebrare la propria ambizione di leader dell’opposizione; Schlein, per difendere la propria posizione e non farsi trovare impreparata; e il terzo incomodo, Giuseppe Conte, per cercare di infilarsi in questo pastrocchio. Hanno fallito miseramente: e gli italiani che non hanno prestato il loro tempo ai lavori congressuali del campo largo hanno di fatto votato per la maggioranza di governo, proprio come già accaduto con Renzi nel 2016: “Se non vinco il referendum vado a casa”; e la maggioranza del popolo sovrano, quella degli italiani che non si presentarono alle urne e che votarono contro, lo bocciarono così come hanno fatto oggi con Schlein, Landini Conte e compagnia bella.

Non ci voleva molto per capire che sarebbe finita così: in un paese che – purtroppo, e questa è grave patologia di cui soffre la democrazia ‒ a malapena va a votare alle elezioni, figurarsi in un referendum presentato come divisivo, utilizzato per contarsi e strumentalizzato per rilanciare l’immagine di una sinistra autentica, schierata dalla parte dei lavoratori. Una finzione che sa di autogol, con la credibilità sotto i piedi al cospetto della gran parte degli italiani, tanto più che quelle norme furono varate dallo stesso centrosinistra. Neanche a parlarne, poi, se ai quesiti sul lavoro se ne aggiunge uno per squarciare il velo dell’apparenza, calare la maschera ed aprire ancor di più le porte all’immigrazione.

Nello specchietto per le allodole dei quesiti referendari c’era una confusione inverosimile finanche per gli addetti ai lavori. Un mix di retorica populista e falsità. Quelli del lavoro sono temi estremamente complessi sui quali dovrebbe legiferare il Parlamento, ossia la politica rappresentativa ‒ e, in ogni caso, solo dopo attente discussioni con studi sociali ed economici alla mano ‒ non una sparuta minoranza (per giunta non rappresentativa) e con interessi di parte. In questa prospettiva, reintrodurre per legge i meccanismi previsti da anacronistici quesiti referendari avrebbe rischiato concretamente di creare una disoccupazione devastante e di distruggere un’enormità di piccole e medie imprese, quelle che reggono l’economia del Paese.

Le soluzioni mitiche pensate dalla sinistra potevano adattarsi al mondo del lavoro di 30 anni fa, non a quello di oggi; che ci piaccia o no, non è più quello del posto fisso con lo stesso impiego per tutta la vita. Viviamo dinamiche in cui la tecnologia progredisce, i settori si muovono rapidamente e se da un lato abbiamo la necessità di tutele lavorative solide, dall’altro è evidente che queste debbano essere anche flessibili. Sul ripristino del reintegro per i lavoratori licenziati, per esempio, è opportuno ricordare che già oggi è previsto per i lavoratori licenziati ingiustamente. La lacuna riguarda i licenziamenti per motivi economici ed il sì al referendum avrebbe previsto il reintegro anche in questo caso. Ma obbligare un’azienda in seria difficoltà economica a reintegrare un lavoratore che non può più permettersi di mantenere ‒ ci insegna l’economia da scuola superiore ‒ rischia di provocare tre danni: un calo drastico delle assunzioni, dei contratti stabili e la chiusura di tante piccole aziende.

Con la proposta di abrogazione del limite massimo per l’indennizzo del lavoratore licenziato da stabilire giudizialmente “caso per caso”, inoltre, non si sarebbe ottenuto altro risultato che togliere certezze alle aziende. Chi oggi licenzia un lavoratore senza giusta causa sa di avere un impegno di spesa fisso per un massimo di sei mesi. E le aziende programmano le assunzioni anche in base a questa certezza. Se il sì avesse raggiunto il quorum, le aziende non avrebbero avuto contezza dell’indennizzo. Di nuovo: meno assunzioni, meno contratti stabili.

Il problema è l’incoerenza: da un lato si vuole stabilità nella contrattualizzazione, dall’altro si pretende di togliere tutte le certezze economiche che rendono appetibili questi contratti per le imprese. Forse i garantiti dei carrozzoni sindacali e i politici di professione della sinistra non hanno mai aperto un’azienda, ma sappiano che la prima regola dell’imprenditore è la programmazione. E programmare significa anche sapere: “Se le cose vanno male e devo licenziare qualcuno, quanto mi costa?”. E se la risposta dovesse essere: “Dipende da quanto è di sinistra il giudice”, è chiaro che ci pensa cento volte.

Ancora, per quanto riguarda il ripristino dell’obbligo delle causali per i contratti a tempo determinato, nel mondo fatato e molto lontano dalla realtà della sinistra regna l’idea che rendendo più difficile e più rischioso per le aziende assumere lavoratori a tempo determinato, si possa favorire un boom delle assunzioni a tempo indeterminato. Vi do una notizia: non è così. Rendere complicata ed estremamente burocratica l’assunzione a tempo determinato ha come effetto diretto un calo drastico delle assunzioni o la diffusione di contratti “peggiori” e meno stabili, come quelli di tirocinio o collaborazione. Senza dimenticare l’effetto drammatico sull’occupazione giovanile, considerato il fatto che dei contratti a tempo indeterminato, in percentuale, ne beneficiano maggiormente i dipendenti più anziani.

Ancora, sulle responsabilità condivise in caso di appalto, invece ‒ come se già oggi l’appaltante non venisse ritenuto responsabile per tutto quello che fa l’appaltatore ‒ l’unica tutela scoperta riguarda i rischi specifici. Il che significa ‒ e la ratio, data la specificità delle competenze, è di immediata intuizione ‒ che se un parrucchiere appalta a una ditta esterna un lavoro che riguarda un assestamento elettrico, non risulta responsabile sulla parte tecnica dell’impianto elettrico. Se avesse vinto il Si, il parrucchiere del nostro esempio sarebbe stato responsabile e, potenzialmente, sbattuto in galera. Un ottimo metodo per paralizzare il Paese.

Guerra persa anche sull’ultima trovata di pura ideologia sulla cittadinanza: un tema che meritava rispetto e confronto serio. Peccato che il segretario della Cgil abbia ritenuto di non esimersi dall’ammettere pubblicamente che con la nuova disciplina cittadinanze pensata nei quesiti referendari si sarebbero ottenuti tre milioni di potenziali nuovi elettori. Allora no, regalare cittadinanza in cambio di voti è la morte della democrazia e la fine della civiltà. Ed è stata la bocciatura più sonora: il quinto quesito, infatti, quello in merito al quale si è sprecata la propaganda di intellettuali ed influencer, ha superato di poco il 60 per cento dei sì. Traducendo il dato numerico in parole significa che anche tra gli elettori di sinistra 1 su 3 ha bocciato questa proposta assurda.

Ciò che le sinistre estere hanno capito sull’immigrazione, la sinistra italiana ha avuto bisogno di sentirlo dai suoi elettori, per l’ennesima volta, incorrendo in una figuraccia planetaria e in nome di una grottesca conta interna. E sono stati smascherati: il motivo per cui i sindacati e la sinistra hanno atteso 11 anni e l’avvento del governo Meloni per redimersi e riformare il Jobs Act del Pd è che a loro non importa nulla del lavoro ma solo del consenso politico. Nulla dei lavoratori, solo delle nuove cittadinanze per provare a ricrearsi un bacino elettorale e non scomparire tra le pernacchie della storia.

È così che tutte le proposte referendarie sono apparse come una messinscena: introducevano un vero e proprio cavallo di troia contro i lavoratori; il dimezzamento degli anni necessari per ottenere la cittadinanza avrebbe implicato che con uno schiocco di dita 3 milioni di immigrati (con annessi ricongiungimenti familiari) si sarebbero ritrovati a gravare sul welfare del sistema Paese. Nient’altro che il via libera per la distruzione dello stato sociale in Italia. È l’esercito industriale di riserva di Carlo Marx, quello in cui però un aumento così cospicuo di forza lavoro causerebbe fisiologicamente un deprezzamento di tutte le attività lavorative ed un melting pot schiacciato verso il basso.

Ma pare che il risultato umiliante non li abbia toccati. Il problema della sinistra non sta tanto nell’aver perso miseramente ma nel non essersi accorta di aver perso ‒ al punto di sostenere di aver vinto in base ad incredibili supercazzole sul numero dei votanti: secondo Schlein, gli elettori del referendum sarebbero più di quelli che nel settembre 2022 hanno votato Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega.

Da una ricostruzione per analogia dovrebbe dedursi che, secondo questo raffinato ragionamento politico (che è una bufala nella quale la segretaria ha dimenticato di togliere dal computo totale il numero dei votanti per il no) i trentadue milioni di elettori che non sono andati a votare siano tutti futuri votanti alle politiche 2027 e tutti elettori del centrodestra. Per logica sua e di tanti creduloni che rivendicano un risultato di tale portata, il centro destra dovrebbe triplicarli. È evidente, per alcuni la matematica è un’opinione e la logica una scienza irrazionale. E nemmeno i numeri catastrofici, inattesi e allarmanti sul quesito di grido sulla cittadinanza, sembrano aver scosso le solide certezze dei “so tutto io”.

Se fossero onesti, ammetterebbero la sconfitta: questo referendum è stato una débâcle epocale. Ma Schlein e compagnia cantante vivono in un mondo tutto loro: sono talmente estraniati dalla realtà che sarebbero capaci di dire “cento di questi giorni” a un funerale. E questa tendenza innata che li vede vincere anche quando perdono denota il loro rifiuto costante della realtà a favore di un mondo delle illusioni e percezioni che li allontana sempre più dalla comprensione dei loro errori. Perché, se proponi un referendum puoi considerarti vincitore solo se questo raggiunge il quorum. Invece in Italia l’opposizione ha l’ardire di dichiarare vittoria senza aver minimamente sfiorato l’obiettivo. E c’è stato addirittura chi ha detto di sapere benissimo, prima del voto, che i quesiti non avrebbero mai raggiunto il quorum e che quindi il risultato delle urne non possa essere considerato realmente come una sconfitta: se così fosse verrebbe da chiedersi, sbalorditi, per quale motivo abbiano deciso di farci spendere 400 milioni di euro. Il teatro dell’assurdo.

Poi, al riparo dal dato narrativo-demagogico dei risultati, c’è l’aspetto moralistico. Il solito. E la reazione nevrotica e scomposta della sinistra al risultato del referendum non ha sorpreso più di tanto perché l’impostazione è sempre uguale: se vincono le elezioni ‒ di qualunque genere ‒ allora è un trionfo della democrazia, se le perdono, la democrazia è in pericolo. Arrivano addirittura a metterne in discussione le regole: evidentemente, oltre le analisi di fantasiose vittorie mutilate, la polpetta è mal digerita.

Infatti, negli ultimi giorni, eminenti esponenti della miglior sinistra del Paese hanno dichiarato finanche che sarebbe necessario rivedere l’istituto del quorum. E pare sia addirittura iniziata una raccolta firme per uno strano progetto non meglio definito teso ad una abolizione del quorum ai referendum. Insomma, cambiare le regole perché non vincono mai. Ma si sa, è “la Costituzione più bella del mondo” solo se vince la sinistra.

Il quorum è uno strumento di protezione, previsto dalla Carta costituzionale, per non permettere l’abuso dello strumento referendario e che vieta la dittatura della minoranza; e l’unica cosa logica da fare, probabilmente, sarebbe quella di alzare il numero delle firme da 500.000 ad almeno un milione: questo obbligherebbe i promotori alla stesura di quesiti davvero popolari. Sono stati capaci di sbagliare tutto: prima politicizzando il referendum ponendolo come una sfida al governo, poi sfruttandolo a mo’ di primarie interne tra Landini, Schlein e Conte ed infine dichiarando una vittoria inesistente.

Dopo essere stati sbugiardati su queste invenzioni, la responsabilità del fallimento politico è ricaduta sulle emozioni, quelle che non sarebbero state suscitate negli italiani, rei di non essersi presentati alle urne per ignoranza. È questo il tenore dei commenti dei deputati del Partito Democratico all’indomani del voto. È possibile mai che non riescano a liberarsi del loro razzismo etico, e giudichino davvero come razze inferiori quelli che non la pensano come loro?

È la cifra distintiva di una sinistraccia che non ha nessuna voglia di cercare di conquistare la fiducia della gente comune: resta lì, sul suo piedistallo senza mettersi mai in discussione. Io penso che, a prescindere dalla parte politica, ci meritiamo un’opposizione seria. Schlein, Conte, Fratoianni, Bonelli, Magi si sono resi responsabili della peggior debacle politica in Italia degli ultimi 25 anni. Tanto sui contenuti quanto sull’aspetto comunicativo e sul carico che avevano ideologicamente tentato di imporre all’appuntamento elettorale.

Una montagna di soldi pubblici spesi per un nulla di fatto. Nessun quorum. Solo carta, timbri e propaganda. Abbiamo speso quasi 400 milioni per mettere una croce su un foglio che non cambia nulla. Nessun effetto. Le coscienze illuminate delle solite bande progressiste e le entrali sindacali che curano solo i propri affari, lì dov’erano prima; al popolo, il conto da pagare.

(*) Leggi la prima parte


di Francesco Catera