lunedì 16 giugno 2025
Alain Berset, Segretario Generale del Consiglio d’Europa, ha proposto recentemente un adeguamento della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per rispondere alla crescente tensione legata alle politiche migratorie. Berset sostiene che non dovrebbero esserci tabù quando si discute della riforma della Convenzione, specialmente in un contesto dove molte nazioni europee, tra cui l’Italia e la Danimarca, lamentano una progressiva erosione della sovranità nazionale in materia di immigrazione a causa delle interpretazioni estensive della Corte europea dei diritti dell’uomo.
In effetti, negli ultimi anni si è intensificata la pressione da parte di governi e opinioni pubbliche che reclamano un maggior controllo sugli ingressi, sulle espulsioni e sulla gestione generale dei flussi migratori. In particolare, molti invocano strumenti normativi che rendano più rapide ed efficaci le espulsioni di immigrati irregolari e di stranieri condannati per reati penali. Il malcontento è tale che si è iniziato a ventilare l’idea di svincolarsi, almeno parzialmente, da vincoli internazionali percepiti come ostacolo alla difesa dell’interesse nazionale.
Se da un lato la reazione sovranista si propone come risposta alla crisi migratoria, essa non risolve il vero nodo della questione. Chi sostiene la chiusura totale dei confini, pur cercando legittimamente di tutelare l’ordine e la sicurezza, spesso finisce per compromettere gravemente il mercato del lavoro, soffocare il dinamismo sociale e limitare la libertà economica. Dall’altro lato, chi sostiene l’inclusione indiscriminata espone a rischi maggiori la coesione interna delle comunità, la sicurezza pubblica e la stabilità delle realtà locali. Entrambi, pur da posizioni opposte, producono squilibri e ingiustizie, poiché impongono soluzioni uniche a realtà molteplici e complesse.
Ebbene, la soluzione a questa impasse potrebbe essere, paradossalmente, di una semplicità disarmante: tornare al principio classico della sussidiarietà.
Detto molto semplicemente, la sussidiarietà è il principio secondo il quale ogni decisione deve essere presa da coloro che sono più prossimi al problema da risolvere. Tanto più l’autorità è in alto, e tanto meno è tenuta a intervenire, se non per risolvere quei problemi che sono condivisi da più realtà locali.
Applicato all’immigrazione, questo principio implicherebbe un radicale decentramento della gestione migratoria: non più soluzioni uniformi imposte da Bruxelles e neanche dalle capitali dei vari Stati, ma politiche adattate alle realtà regionali, provinciali, se non addirittura municipali. Sarebbe, cioè, auspicabile che ogni comunità locale potesse stabilire, secondo le proprie esigenze sociali, economiche e culturali quanti e quali immigrati accogliere.
Gli effetti di questo tipo localistico di politica migratoria sarebbero molteplici e positivi. Anzitutto, una tale struttura favorirebbe una sana competizione tra modelli regionali. Due regioni confinanti potrebbero decidere di adottare strategie completamente differenti: una potrebbe accogliere senza criterio, mentre l’altra potrebbe selezionare in maniera molto rigida. Gli esiti di queste politiche – in termini di coesione sociale, di sicurezza, di crescita economica, di qualità della vita – sarebbero osservabili nel lungo, medio e forse persino breve termine, permettendo a ciascuna realtà di adattarsi e correggere le proprie scelte. In questo modo, l’immigrazione cesserebbe di essere un “problema nazionale” da affrontare con strumenti centralizzati e diventerebbe un’opportunità per rafforzare l’autonomia locale.
Inoltre, questo sistema favorirebbe una mobilità più sana perché spontanea, non solo per gli immigrati, ma anche per gli stessi cittadini autoctoni, che potrebbero scegliere di vivere in aree più conformi ai propri valori e bisogni.
In altre parole, bisogna distruggere il dannoso mito dello Stato onnisciente. Alla base di ogni centralismo – sia progressista che conservatore – c’è l’illusione dell’onniscienza statale, ossia la pretesa che pochi uomini, raccolti nei palazzi del potere, possano risolvere problemi che coinvolgono milioni di persone. Si dimentica una verità fondamentale, confermata sia dalla ragione naturale sia dall’osservazione sociologica: l’uomo non è fatto per essere massificato.
L’antropologo Robin Dunbar aveva dimostrato, negli anni Novanta, che ciascuno di noi può mantenere rapporti significativi al massimo con circa 150 persone. Le comunità naturali – quelle in cui le relazioni sono vive, dirette e fondate sulla fiducia reciproca – non superano questa soglia. Come possiamo allora pensare che la gestione di flussi migratori che coinvolgono decine o centinaia di migliaia di persone possa essere affidata a ministeri o corti sovranazionali? Non è forse più razionale e giusto che a decidere siano le comunità che dovranno convivere quotidianamente con questi nuovi arrivati?
La proposta di Berset di riformare la Cedu può essere letta come il riconoscimento implicito di un fallimento: il fallimento di una visione europea astratta, disincarnata, tecnocratica, che pretende di fondare la convivenza umana su diritti individuali sganciati da ogni contesto storico, culturale e religioso. Si tratta della stessa visione assurda che ha portato a imporre dall’alto l’idea secondo cui ogni frontiera equivarrebbe a un’ingiustizia, ogni controllo a una discriminazione, ogni preferenza culturale a razzismo.
La soluzione alla crisi migratoria non consiste né nell’imposizione di accoglienze indiscriminate né nell’erezione di muri in mano a Stati burocratici e megalomani. La vera via è quella dell’Europa delle comunità. Un’Europa costruita dal basso, dove le decisioni nascono dalla realtà concreta delle famiglie, dei municipi, delle parrocchie, delle regioni.
di Gaetano Masciullo