giovedì 8 maggio 2025
In occasione del Giorno della memoria in cui si ricordano le vittime del terrorismo (il 9 maggio) vale la pena di riflettere, per meglio capire la follia omicida che segnò due decenni di storia italiana, sul ruolo avuto dagli intellettuali marxisti nel creare il terreno politico-culturale sul quale si sono formati i protagonisti del terrorismo rosso. “Cattivi maestri” che hanno continuato, a dispetto della realtà, a parlare prima di sedicenti Brigate rosse e successivamente di “compagni che sbagliano”. Tutto ciò accadeva in ragione del fatto che l’establishment culturale italiano degli anni Sessanta e Settanta era figlio di una tradizione politica che “non aveva escluso, ma solo tatticamente tacitato, l’ipotesi di fare ricorso alla violenza come strumento di lotta politica”. In tal senso, uno degli episodi più significativi è quello che si consuma all’indomani della morte di Giuseppe Pinelli precipitato da una finestra degli uffici della questura di Milano. Ne seguirà una violenta campagna contro il commissario Luigi Calabresi indicato, in assenza di qualsivoglia riscontro fattuale, come responsabile della morte del militante anarchico.
A tal proposito, venne lanciata una lettera-appello datata 1971 in calce alla quale furono raccolte parecchie centinaia di firme. A rileggere i nomi dei firmatari c’è di che rabbrividire. Vi era quasi per intero rappresentato il Gotha della cultura italiana, perlopiù titolari di cattedre universitarie accanto ad esponenti di primo piano del mondo dell’editoria e del giornalismo. Tutti, ma proprio tutti, riconducibili all’universo della sinistra comunista la cui cifra politica ruotava intorno a “una concezione dello Stato inteso come nemico da combattere militarmente” e non come “entità democratica d’identificazione collettiva”. Luigi Calabresi fu ucciso sotto la sua abitazione, di lì a poco, per mano di un commando di Lotta Continua. Diciamolo con chiarezza: la “dittatura culturale marxista”, per dirla con le parole del professore Nicola Matteucci, rappresentò il brodo di coltura nel quale crebbe e si moltiplicò il virus del terrorismo in Italia.
Per averne contezza è sufficiente recuperare i cataloghi di quegli anni delle maggiori case editrici del nostro Paese, là dove non si trova traccia alcuna di autori che fin dal Dopoguerra accendono il faro sulle aberrazioni del totalitarismo sovietico. Per quanto si cerchi non si trovano nomi (se non in qualche piccola e valorosa casa editrice) come Boris Souvarine, Vasilij Grossman, Robert Conquest, Raymond Aron, Ignazio Silone, François Fejtö, per citarne solo alcuni. Per non dire delle opere di Karl Popper, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek. D’altronde, il destino che toccò nel 1974 ad Alexandr Solženycin quando fu pubblicato in Italia Arcipelago Gulag – libro che squadernava le immense atrocità commesse dai sovietici nei confronti dei dissidenti – fu di gran lunga peggiore rispetto al silenzio riservato agli autori citati.
Infatti, scese in campo l’intero esercito dei “compagni intellettuali” con l’obiettivo di sminuire il valore del libro attraverso una campagna di screditamento dello scrittore presentato come “ignobile fascista e mediocre romanziere”. Addirittura vi fu qualche canaglia dotato di macchina per scrivere che mise in giro la voce secondo cui lo scrittore russo fosse al soldo del dittatore cileno Augusto Pinochet. Non fu diversa l’accoglienza che ebbe Gustav Herling – un esule polacco giunto in Italia nel 1955 – che raccontò la sua esperienza di deportato in un Gulag sul Mar Bianco. In questo caso, dalle colonne di Paese Sera si arrivò addirittura a chiedere l’espulsione di Herling dall’Italia. Prima o poi si dovrà aprire il capitolo della responsabilità morale di larga parte dell’intellettualità nella nascita e nella crescita del terrorismo rosso nel nostro Paese. Lo richiede la pacificazione di cui si parla in questi giorni.
di Francesco Carella