martedì 8 aprile 2025
Nell’euforia generale che aveva accolto gli esiti della Conferenza di Monaco sotto la gestione di Neville Chamberlain, il 5 ottobre 1938 Winston Churchill tenne alla Camera dei Comuni un discorso che assume oggi un significato particolarmente emblematico e profetico. Contro una politica di appeasement che gli appariva allora non meno inopportuna di quanto appare oggi a molti quella dei pacifinti verso la Russia, Churchill sostenne – come si confaceva al suo carattere, alla sua lungimiranza e alla sua straordinaria onestà intellettuale – anche in quell’occasione tesi coraggiose, impegnative e decisamente scomode. La sintesi di quanto era appena accaduto a Monaco è costituita da una metafora che ha il gusto di una facezia: “Ci hanno puntato contro una pistola e ci hanno chiesto una sterlina. Una volta ottenuta la sterlina, ci hanno puntato contro la pistola e ce ne hanno chieste due. Alla fine il dittatore ha acconsentito a prendere una sterlina, diciassette scellini e sei penny, e il resto in promesse di buona volontà per il futuro”. Riguardo alla questione dei Sudeti, Churchill era infatti convinto che i cechi, avessero fin dall’inizio capito che le potenze occidentali non avrebbero dato loro alcun supporto e che, se fossero stati lasciati a loro stessi, sarebbero stati in grado di ottenere condizioni migliori di quelle che di fatto ottennero al termine delle trattative: “Del resto, difficilmente avrebbero potuto averne di peggiori”. Churchill era convinto che si fosse arrivati a quella circostanza paradossale e desolante per aver deliberatamente ignorato che il mantenimento della pace dipendeva “dall’incremento di deterrenti contro l’aggressore, unito a uno sforzo sincero per la riparazione dei torti”. Solo così infatti si sarebbe potuto evitare la vittoria di Adolf Hitler.
Questa sua convinzione scaturiva da una più generale: che in certe circostanze della storia non ci sono vie di mezzo: o si fa una cosa o si fa l’altra. Al tempo della Conferenza di Monaco la Gran Bretagna si sarebbe potuta disinteressare del tutto della questione, oppure avrebbe dovuto decidere di essere impegnata a fare “tutto il possibile per assicurare protezione a quel Paese”. In questa seconda ipotesi avrebbe dovuto dichiarare apertamente e con largo anticipo che si sarebbe impegnata insieme ad altri a difendere la Cecoslovacchia da un’aggressione non provocata, e siccome il Governo di Sua Maestà si rifiutò d’impegnarsi in tal senso, pur potendo, in quel momento, salvare la situazione con un simile annuncio, di fatto il suo tardivo intervento lo costringeva ora a impegnarsi per il futuro quando ormai “era troppo tardi”, quando cioè non aveva più il potere di garantire che la situazione non degenerasse. La Cecoslovacchia era ormai perduta, “ridotta al silenzio, triste, abbandonata, smembrata”, costretta a pagare a caro prezzo “la sua associazione con le democrazie occidentali e con la Società delle nazioni”. Per giustificare l’oscuro destino in cui venne precipitata si fece riferimento, accettando che si ricorresse al plebiscito in vaste aree del Paese, addirittura al principio dell’autodeterminazione dei popoli. Ma un tale principio, quando viene utilizzato da Stati totalitari, non è nient’altro “che una frode e una farsa”. Nei Paesi liberali e democratici si ha infatti “tutto il diritto di esaltare il principio dell’autodeterminazione, ma l’appello a questo stesso principio suona corrotto quando viene invocato da quegli Stati totalitari che negano anche la più piccola tolleranza a ogni gruppo e credo di minoranza entro i loro confini”.
Churchill poteva così prevedere, anche alla luce di queste considerazioni, che lo Stato cecoslovacco avrebbe perso la sua indipendenza e che sarebbe stato presto inglobato nel regime nazista. Dopo “cinque anni di futili buone intenzioni, cinque anni di ritirata ininterrotta del potere britannico, cinque anni di abbandono delle nostre difese aeree”, questa era la situazione drammatica in cui si trovavano la Cecoslovacchia e l’Europa ancora democratica nell’ottobre del 1938. Francia e Gran Bretagna avevano consentito la rapida dissoluzione del patrimonio di sicurezza di cui disponevano dopo la fine del Primo conflitto mondiale e ora avrebbero scontato la pena per questa deliberata e irresponsabile rinuncia. In cinque anni, avevano perso “il potere di fare del bene, il potere di essere generosi nei confronti di un nemico sconfitto, il potere di scendere a patti con la Germania, il potere di darle il giusto risarcimento per i torti subiti, il potere di fermare il suo riarmo”: insomma, più concisamente, il potere di fare qualsiasi passo che ritenessero giusto, “mostrando forza, o misericordia o giustizia”. In cinque anni si era dunque passati da una posizione sicura e incontrastata a una precaria e pericolosa. Chamberlain e chi con lui aveva guidato la Gran Bretagna in questo lasso di tempo non avevano impedito alla Germania di riarmarsi né si erano riarmati per tempo, trascurando poi di predisporre alleanze e formare coalizioni idonee a porre rimedio a errori precedenti, e ora si trovavano di fronte un esercito tedesco molto più forte di quanto non fosse cinque anni prima.
L’analisi di Churchill assume poi, nel proseguo di questo discorso alla Camera dei Comuni, i tratti della profezia politica quando dice che i governati tedeschi, una volta sollevati “da ogni preoccupazione sul fronte orientale ed essendosi assicurati risorse che ridurranno notevolmente il deterrente di un blocco navale” saranno in condizione di “scegliere liberamente in quale direzione posare i loro occhi”. Si tratta di una situazione di cui sarebbe irresponsabile sottovalutare la gravità, e per quanto ci si possa sentire vicini al popolo tedesco e auspicare di potervi intrattenere in futuro relazioni cordiali, bisogna essere consapevoli che “non potrà mai esserci amicizia tra la democrazia britannica e il potere nazista, un potere che respinge l’etica cristiana, che avanza col suo barbaro paganesimo, che vanta lo spirito di aggressione e di conquista, che trae forza e un piacere perverso dalla persecuzione e usa con spietata brutalità la minaccia della forza omicida”. Le parole di Churchill, pare superfluo evidenziarlo, suonano oggi quanto mai attuali, con la differenza sostanziale che questa consapevolezza dell’impossibilità di un’amicizia tra il dittatore criminale del Cremlino e le democrazie occidentali non risulta affatto evidente a buona parte dei loro popoli e dei loro governi, che anzi si apprestano a instaurare con quello russo rinnovate relazioni di amicizia e collaborazione, relazioni destinate a sancire la sostanziale vittoria di Vladimir Putin nella guerra d’Ucraina e gli permetteranno di continuare ad armarsi e a prepararsi con un’economia di guerra al prossimo attacco all’Europa.
In occasione di quel discorso alla Camera, all’inizio del mese di ottobre del 1938, in quella cupa prospettiva che si delineava all’orizzonte a Churchill sembrava che un fatto dovesse risplendere “con evidenza lampante”, e cioè la necessità di mettere in atto fin da subito “uno sforzo di riarmo mai visto in precedenza”. A tale fine si sarebbero dovute impiegare “tutte le risorse e tutta la forza unita” della Gran Bretagna e tener ben presente che c’era uno svantaggio da colmare nel più breve tempo possibile, perché c’erano state gravi negligenze nell’organizzazione del proprio sistema di difesa: in pratica, era come se si fosse già “subita una sconfitta senza aver fatto una guerra”, e le conseguenze di questa sconfitta avrebbero accompagnato il Paese a lungo nel suo futuro cammino. Con la rottura dell’intero equilibrio su cui si reggeva l’Europa, si era infatti “consumato un terribile evento”, di cui le democrazie occidentali si erano rese responsabili. Ora non bisognava commettere l’errore di credere di essere alla fine di una resa dei conti tra democrazie e dittature: si era solo all’inizio, “al primo assaggio dell’amaro calice – precisò Churchill in modo perentorio – e che ci verrà offerto anno dopo anno, a meno che, grazie a un estremo recupero della salute morale e del vigore marziale, non ci rialziamo e combattiamo per la libertà come abbiamo fatto in passato”. Così si concludeva il discorso tenuto alla Camera dei Comuni il 5 ottobre 1938 e le sue parole suonano ancora oggi come un’esortazione e un monito. Non ci resta che sperare che i popoli e i governanti dei Paesi democratici non si ostinino a voler nascondere ancora una volta la testa sotto la sabbia e che sappiano assumersi le responsabilità delle scelte di portata epocale che la storia oggi gli pone di fronte, evitando di trasformarle in un farsa che potrebbe avere solo l’esito di favorire la sconfitta delle democrazie e la vittoria dei regimi totalitari, vittoria che potrebbe risultare anche definitiva, fino a consegnare nelle loro mani il destino dell’umanità.
di Gustavo Micheletti