La pagliacciata delle toghe

venerdì 28 febbraio 2025


Che faccia tosta queste toghe che oggi si autoinnalzano a baluardi della Costituzione dopo averla letteralmente stuprata per oltre un trentennio con abusi ed eccessi di ogni genere e specie. Si indignano senza ritegno, e non senza una buona dose di sprezzante ipocrisia, sollevando le barricate contro quella Riforma della Giustizia pensata dall’esecutivo di centrodestra al fine di provare a riequilibrare un sistema assai distorto e ormai obsoleto. Gremiscono le piazze italiane da Nord e Sud con manifestazioni organizzate in nome di una giusta causa, per il bene supremo, a difesa del cittadino e della Carta costituzionale, ma poi, in realtà, ambiscono esclusivamente a tutelare i loro interessi e quei privilegi acquisiti e consolidati in trent’anni di Repubblica giudiziaria. 

Perché, si badi bene, quella tanto decantata indipendenza a cui così audacemente essi sono soliti fare rifermento per giustificare la loro battaglia antigovernativa, in verità, altro non è che irrefrenabile desiderio di difendere la propria posizione di comodo dagli impulsi riformatori dell’esecutivo. 

Se i giudici oggi brandiscono con una tale veemenza la Costituzione, usata da costoro alla stregua di una vera e propria clava, è solo e soltanto nell’intento di salvaguardare i propri privilegi e di ribadire ancora una volta, con fermezza e decisione, che essi sono ed intendono restare al di sopra di tutto e tutti. Al di sopra della politica, il cui primato fu brutalmente soppiantato già tre decenni or sono a colpi di sentenze, avvisi di garanzia e carcerazioni preventive con la falsa rivoluzione di Mani Pulite; e persino al di sopra del cittadino, che oggi, dopo anni di storture e soprusi, rimette nelle mani del potere politico l’arduo compito di riformare una giustizia svilita e depredata proprio da coloro che avrebbero dovuto amministrarla.

E invece no, piuttosto che governare sapientemente il potere giurisdizionale, in questo primo trentennio secondo-repubblicano, costoro hanno fatto esattamente il contrario di quanto in teoria avrebbero dovuto: hanno fatto scempio della giustizia con guerre intestine tra correnti e nomine pilotate, hanno sconfinato sistematicamente indirizzando le scelte di una politica ricondotta a suon di inchieste ad una condizione di perenne subalternità, hanno utilizzato a proprio uso e consumo la potente arma giudiziaria allo scopo di influenzare il regolare corso della democrazia attraverso attacchi a orologeria destinati all’esponente politico di turno considerato sgradito. Il tutto per trenta lunghi anni. E adesso, che finalmente la politica pare aver trovato il coraggio di venire fuori dal tunnel ed intraprendere un percorso riformatore volto a sanare un profondo squilibrio tra poteri dello Stato venutosi a creare all’indomani dello scoppio della stagione di Tangentopoli, i magistrati che fanno? Promuovono in pompa magna una protesta pretestuosa, tracotante e per di più sbagliata, tanto nel metodo quanto nel merito.

Separare le carriere equivarrebbe infatti a rendere la giustizia penale più moderna e il giudice finalmente terzo, proprio come recita l’articolo 111 di quella stessa Costituzione che i giudici sostengono ardentemente di voler difendere. Avere due Consigli superiori, uno per i giudici ed uno per i pubblici ministeri, significherebbe garantire ad entrambe le magistrature, quella giudicante e quella requirente, autonomia ed indipendenza, tutelando al contempo i magistrati da eventuali condizionamenti derivanti dall’avere un governo comune che ne amministra carriere e disciplina. È questa la realtà dei fatti, inutile girarci troppo intorno. Tutto il resto rientra nella colossale opera di distrazione di massa propagandata dalle toghe al fine di affossare preventivamente la riforma giudiziaria (a loro inevitabilmente sgradita), e conservare quel potere accumulato nell’arco di questi ultimi decenni ben saldo nelle proprie mani (tutto fuorché pulite).


di Salvatore Di Bartolo