venerdì 14 febbraio 2025
Quella dei giornalisti non è una categoria e nemmeno una corporazione. Forse una massa amorfa e solipsista di gente disperatamente alla ricerca d’un posto al sole, d’uno stipendiuccio; forse d’un pulpito capace di lenire quel misto d’insoddisfazione e frustrazione. La gente se ne è accorta e non guarda più i telegiornali, non compra più i giornali. Non crede più alla altisonante “stampa istituzionale”, quella che sotto pandemia ci chiedeva d’obbedire ciecamente al potere, di pregare per Supermario salvatore della patria. Ecco perché lo scrivente rifugge da sindacalesche difese della categoria. Ma corre obbligo che tutti noi si difenda la libertà di stampa, di parola, di critica, di pensiero.
Piero Sansonetti è stato aggredito dal “dipartimento delle Informazioni per la sicurezza”, lo si apprende da una nota in cui i Servizi segreti annunciano “azioni legali in sede civile” contro le due testate giornalistiche. Chi scrive evita d’entrare nel dettaglio, perché dagli anni Ottanta ad oggi cento processi possono bastare. Sansonetti ha giustamente dichiarato a La7: “Io voglio il processo ma si nascondono dietro la causa civile. Vigliacchi!”. Infatti, il Dis ha intentato causa civile contro L’Unità e Il Foglio: ovvero chiederà un risarcimento in soldi per un importo parametrato al valore venale del presunto danno, e naturalmente peserà sul valore della causa l’importo che lo Stato mette a bilancio per il Dis (872 milioni di euro è stata l’ultima somma stanziata in bilancio annuale). Gli avvocati di parte civile chiederanno in mediazione una cifra a tanti zeri, certi che la condanna di primo grado non possa discostarsi granché dalle loro richieste. Una causa, come tutte quelle civili intentate contro giornalisti e scrittori, che testimonia quanto la dirigenza di Stato sia nemica della libertà di stampa.
Ma Piero Sansonetti sfida gli 007 al pari di Don Chisciotte rivisitato nella pellicola di Orson Welles: “Non nascondetevi dietro la causa civile, portate le carte in tribunale” urla Sansonetti. Sembra d’udire Francisco Reiguera (detto l’Eduardo De Filippo spagnolo) che interpretando il Cavaliere della Mancia di Welles impreca contro il potere burocratico spagnolo moderno, spiegando che compito dell’eroe è mostrare al mondo che ci si deve battere per un valore senza mai essere disposti a cedere. Per questo motivo lo scrivente difende Pietro Sansonetti, certo che il buon Arturo Diaconale avrebbe fatto altrettanto. Perché finisce la libertà di stampa quando uno 007, un superpoliziotto, un magistrato, un banchiere, un grande imprenditore, un vip della finanza o un importante politico fa causa civile ad un giornalista.
Una sconfitta in sede civile significa per un giornalista la fine d’una vita normale, il dover contrarre debiti e, soprattutto, che dopo una importante condanna nessuna assicurazione è più disposta a coprire eventuali “danni da attività giornalistica”. Perché nel nostro tanto infiocchettato Occidente, dove ci permettiamo anche il lusso di fare graduatorie sulla libertà di stampa o di dare lezioni di libero pensiero a terzo e quarto mondo, esiste una magistratura che ha ridotto in “povertà irreversibile” migliaia di giornalisti per motivi giudiziari, ed a seguire bancari, fiscali, finanziari. Giornalisti che si sono indebitati o che hanno perso ogni dignità lavorativa per dover risarcire banchieri, magistrati, industriali, alti dirigenti di Stato e politici. Morte civile che si consuma nel totale silenzio della stampa, e perché sia l’Ordine che il sindacato di categoria temono doversi inimicare importanti toghe e studi legali di grido.
Lo scrivente ricorda gli anni in cui a fare sindacalismo c’era Arturo Diaconale, che difendeva i giornalisti di tutte le simpatie politiche: soprattutto difendeva chi faceva giuste battaglie; così era possibile titolare “Broccoletti amari per Scalfaro!” quando scoppiava lo scandalo dei fondi neri dei servizi segreti che bagnavano la presidenza della Repubblica. Una volta a pranzo Arturo mi diceva ridacchiando che “per un giornalista è più onorevole la galera piuttosto che pagare un risarcimento”. Arturo era un garantista, mi ricordava che Giovanni Guareschi aveva scontato più d’un anno di carcere negli anni Cinquanta per una tenzone con Alcide De Gasperi. Ma De Gasperi, che poi perdonava Guareschi, non aveva mai cercato una sola lira allo scrittore, e nemmeno cercato di pignorargli casa mentre era recluso.
“Io voglio andare a processo ‒ insiste Sansonetti ‒ però non fare il vigliacchetto intentandomi una causa civile, in modo che io non possa portare le carte… Come mai hai querelato penalmente Lo Voi? Querela penalmente anche me, andiamo a processo e vediamo le carte… andiamo a processo, ma che sia un processo penale. Non ti nascondere dietro a una causa civile, perché se lo fai sei un vigliacco. Se invece andiamo a processo penale ‒ chiosa il direttore de L’Unità ‒ sono felice”. Nelle parole di Pietro Sansonetti torna a galla quell’impeto d’onore che era di Felice Cavallotti. Parafrasando Giosuè Carducci e altri che s’alternarono nell’ultimo saluto a Felice Cavallotti, chi duella anche con la penna rifugge dalla volgarità del danaro.
È ovvio sarebbe anacronistico (i bacchettoni direbbero “illegale”) che due testimoni all’alba emettessero con le nocche un sordo suono sull’uscio d’un giornalista o d’un alto dirigente di stato, concedendo le sole scelte d’arma e luogo: immagine ormai fantastica e d’altri tempi, ma per certi versi meno brutale della spoliazione economica che prevede la causa civile. S’asserisce questo memori delle cause civili intentate dalla Fiat per difendere l’Alfa Mito: in questo caso la famiglia Agnelli ha incamerato più di sette milioni di euro, facendo pesare il valore morale e patrimoniale della storica azienda italiana. Non stava andando certo meglio ai giornalisti che attaccavano Autostrade e famiglia Benetton dopo il crollo del Ponte Morandi: certi studi legali (di cui evitiamo il nome per scansare cause) avevano telefonato a giornali e giornalisti rammentando loro che il valore d’una eventuale causa sarebbe stata proporzionale al patrimonio di Autostrade e Bennetton. Tanti i giornalisti che hanno piegato la schiena in segno di deferenza verso il potere.
Stessa solfa per chi ha osato insinuare che, un vertice bancario suicida potesse rivelare notizie su flussi finanziari relativi ad affari nel settore degli armamenti. La lista è lunga, soprattutto di accordi firmati tra giornalisti e potere affinché non si divulghino notizie.
In sintesi, questo è lo stato della libertà di stampa nel nostro Paese. Ecco perché si difende Sansonetti, che come noi è un garantista. Ma vale la pena rammentare cosa diceva Indro Montanelli della libertà di stampa, ovvero che: “è dell’editore che ha libertà di stampare… e anche di assumere i figli scemi della gente importante”.
di Ruggiero Capone