lunedì 3 febbraio 2025
Ai devoti credenti dell’imminente apocalisse climatica piace rimanere aggrappati, come Linus alla coperta, alla semplice equazione: + C02 = + caldo. Il cui corollario, se non si agisce subito ‒ come presagiscono da decenni ‒ sarà l’invivibilità del pianeta e l’estinzione del genere umano.
In realtà (e lo dicono scienziati e premi Nobel veri, non quei sociologi, politici ed economisti, di cui è affollato l’Ipcc, gruppo di studio presso l’Onu, in cui non si entra neppure se si hanno dubbi sulla responsabilità antropica) il clima è il frutto di una quantità di interazioni naturali e planetarie, che non possono essere schematizzate negli scarni modelli predittivi, elaborati da chi anticipa quanti gradi in più avremo tra 100 anni, quando non si sa neppure, con certezza, se farà caldo o farà freddo, da qui a poche settimane. Il refrain più abusato, a difesa di questa incertezza, è che non si può confondere clima con meteorologia. Verrebbe da rispondere, maliziosamente, che, mentre la fallibilità delle previsioni meteorologiche ‒ su cui circolano, da sempre, barzellette ‒ è verificabile a stretto giro, la smentita del presagito Armageddon climatico, la vedranno i nostri nipoti, quando i profeti, che di questa sventura hanno fatto professione, non ci saranno più per ricevere i meritati sberleffi, nella forma resa celebre dal principe Antonio de Curtis, in arte Totò.
I precedenti ultimatum per scongiurare catastrofi planetarie causate dall’uomo, pronosticati con decennale cadenza, sono inesorabilmente decorsi, senza la paventata scomparsa della vita sul pianeta. L’Ipcc, per troppi anni, ha incoraggiato una narrazione irrealistica ed estrema del futuro dell’umanità, in assenza di scelte politiche nella direzione da esso indicata. Le dinamiche della fisica dell’atmosfera sono, ancora oggi, largamente sconosciute, tanto che la Nasa ha battezzato i suoi strati più alti, la stratosfera, con l’umile appellativo di ignorosfera. Di questo strato che avvolge il nostro pianeta, sopra la fascia di ozono e distante fino a 50 chilometri, e interagisce con energia solare e radiazioni cosmiche, si sa poco o nulla perché è situato troppo in basso per essere osservato dai satelliti e troppo in alto per essere monitorato dai palloni sonda. Il nostro clima è influenzato da un vasto numero di fattori, sia a livello della troposfera in cui viviamo, includendo i ruoli dei sistemi orografici, degli oceani, dei vulcani, delle nuvole e, in minor misura, dell’attività umana, ma, soprattutto dell’interazione, nella nostra atmosfera e nello spazio sovrastante, delle attività solari, delle aurore e dei campi magnetici interplanetari.
In questi giorni, il Giappone ha annunciato di aver messo a punto un sistema per elaborare e analizzare decine di anni di dati riguardanti gli strati dell’atmosfera, da terra fino a 100 chilometri sopra di essa, per cercare di capire funzionamento e gerarchia dei fattori che determinano andamento climatico e fenomeni meteorologici sul pianeta. Le risposte non le avremo subito, ma è un buon inizio per moderare la presunzione di quella comunità di ferventi sostenitori della causa antropica e per cominciare a metterne in discussione le pervasive certezze che, nell’opinione di tanti scienziati dissidenti, sono, invece, solo dogmi. Anche ai profani appaiono come totem ideologici, eretti per demolire gli attuali modelli sociali ed economici e incamminare le nazioni verso quella decrescita felice che, lo stiamo già vedendo, di felicità e libertà ne promette ben poca.
Sempre associati ad essi, in formula “all inclusive”, sono anche gli altri precetti, partoriti dall’Onu, di egualitarismo e di governance globale. Non è un caso che il radicalismo ambientale sia più diffuso tra le forze politiche e nell’elettorato di sinistra, che alla Libertà individuale hanno sempre anteposto la tracotanza dello Stato Etico e della pianificazione sociale. Per costoro, nemmeno tanto inconsciamente, l’agenda green rappresenta il sogno di riesumare il cadavere del fallimentare sistema socioeconomico, sconfitto dalla Storia e nelle urne, che essi, per la verità, non hanno mai formalmente rinnegato. Agli accademici e scienziati che, senza timore dell’impopolarità, cercano di dar voce a dubbi e obiezioni alla fondatezza della narrazione climatica, vengono tolti visibilità mediatica e sostegno. Screditati, definanziati, tacitamente censurati. Così è successo al professor Franco Prodi, accademico, fisico dell’atmosfera e, prima dell’abiura, delegato italiano all’Ipcc, da lì in avanti relegato nell’oblio. Visibilità e mezzi che, invece, vengono generosamente distribuiti per le più stravaganti attività di ricerca, purché ortodosse e conformi al codice di sostenibilità in voga. Come quegli studi, in ambito accademico, sull’effetto dei cambiamenti climatici sul benessere dei nostri animali di affezione o per esaminare la correlazione tra la variazione delle temperature e l’abuso di sostanze psicotrope.
A quelli che si sentono confortati dal “consenso quasi unanime” (o bulgaro, come si usava dire, in altro ambito) sulle cause antropiche dei cambiamenti climatici (ovviamente gli scienziati eretici non hanno diritto di “voto”) bisognerebbe ricordare che la Scienza non procede a maggioranza. Altrimenti, nei libri delle scuole dell’obbligo, continueremmo a leggere la teoria del sistema geocentrico e dell’immobilità della terra nel cosmo di Tolomeo, sulla quale, pure esisteva, il “quasi unanime consenso” dei coevi scienziati suoi colleghi.
di Raffaello Savarese