venerdì 31 gennaio 2025
Per comprendere appieno il terremoto che Bettino Craxi scatenò nel perimetro politico della sinistra italiana occorre ricordare l’arretratezza culturale del Partito comunista negli anni in cui Craxi divenne segretario del Partito socialista nel luglio 1976. Infatti, l’anno prima Enrico Berlinguer, al XIV congresso del Pci, esalta non soltanto i successi economici dell’Unione Sovietica, ma anche “il suo complessivo sviluppo civile e sociale”. Per il numero uno di Botteghe Oscure, “è universalmente riconosciuto che nei Paesi socialisti esiste un clima morale superiore, mentre gli Stati capitalistici sono sempre più colpiti da un decadimento di identità e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione”. L’irrompere nella vita politica di Craxi segna una profonda cesura nella storia della sinistra italiana: per la prima volta un leader socialista decide di squarciare la corazza ideologica del più grande partito comunista dell’Occidente.
Lo fa con lucida chiarezza e determinazione definendo “il comunismo del tutto incompatibile con i princìpi della democrazia liberale” e liquida l’ideologia marxista-leninista per ciò che essa è realmente ovvero, riprendendo una definizione dello storico Richard Pipes, “un’ideologia totalizzante che non comprende il concetto di libertà”. Un tale modo di ragionare colpisce come un fulmine lo statico conformismo dell’establishment politico-culturale del Pci. Le reazioni sono a dir poco scomposte. Lo storico Paolo Spriano scrive un lungo articolo sul settimanale Rinascita, in cui lancia un “allarme democratico” in ragione del fatto che “i toni dei socialisti sono idonei all’addestramento dei commandos delle teste di cuoio, ma non al dibattito politico”. Per Berlinguer si tratta di una “polemica confusionaria vociante, denigratoria, fragorosa contro il nostro partito”. Mentre il suo più stretto collaboratore, Antonio Tatò – come documenta lo storico Piero Craveri nel saggio La democrazia incompiuta – gli invia una nota datata 18 luglio 1978 in cui scrive che “Craxi è un avventuriero, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggiatore e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido del tutto estraneo alla classe operaia.
Con lui appare in Italia un personaggio quale ancora non si era mai visto in più di trent’anni di vita democratica, un bandito politico di alto livello”. Le basi su cui negli anni successivi fu costruito l’anti-craxismo furono poste nella seconda metà degli anni Settanta attraverso reazioni di questo tenore. Dal Pci preferirono, in luogo di una profonda discussione critica sugli argomenti avanzati da Bettino Craxi, trincerarsi dentro una “fortezza dottrinaria” ormai vetusta. In tal modo, venne liquidata una grande opportunità per l’intera sinistra: costruire un partito riformista moderno al pari degli altri Paesi europei. Quanti e quali danni abbia prodotto un tale errore di prospettiva nella vita politica del nostro Paese i post-comunisti incominciano a riconoscerlo, ancorché fra molte reticenze, soltanto oggi a distanza di venticinque anni dalla scomparsa del leader socialista. Ancora una volta la storia, seppure con i tempi lunghi, si rivela una severa giustiziera.
di Francesco Carella