martedì 28 gennaio 2025
L’inaugurazione dell’anno giudiziario ha segnato un momento significativo che deve indurre a un’attenta riflessione. La protesta sollecitata dall’Anm (che ha registrato la levata di scudi della magistratura) attraverso la rappresentazione di un gesto forte nei confronti del ministro della Giustizia non può essere relegata e liquidata con un commento superficiale. Girare le spalle a chi rappresenta lo Stato non può essere condivisibile nella misura in cui crea un conflitto inaccettabile per una democrazia matura. La base della democrazia è rappresentata dalla capacità di accettare le determinazioni libere di una maggioranza eletta dal popolo. Si può non essere d’accordo. Si può manifestare il proprio dissenso attraverso un confronto dialettico, attraverso la previsione, nel rispetto delle leggi, di forme di protesta (quali lo sciopero), ma non si può mancare di rispetto, attraverso una mal celata incapacità di sopportare un’idea diversa dalla propria, allo stesso Stato di cui ci si sente garanti e difensori. In caso contrario, nel momento in cui venisse meno il reciproco rispetto, si determinerebbero condizioni estremamente preoccupanti per la vita del nostro sistema sociale.
Ognuno, infatti, si sentirebbe autorizzato a porre in essere comportamenti che, ispirati alla mancanza di rispetto, minerebbero alla base la credibilità delle istituzioni. Inizieremmo, in tal modo, a percorrere la strada preoccupante della delegittimazione. La delegittimazione che l’Anm ritiene essere racchiusa in questa riforma è lo strumento che essa stessa (in maniera contraddittoria) adotta per contrastarla. E la modalità non condivisibile della protesta la depotenzia irrimediabilmente. Assistere a una scena in cui, seguendo l’indicazione dell’Anm, i magistrati si alzano, girano le spalle e vanno via con Costituzione in mano e coccarde in mostra, ci riporta a un’immagine poco consona al linguaggio giudiziario e molto più vicina a quello politico. La tanto vituperata politica contrastata e avversata da una magistratura che, in un periodo storico neanche troppo lontano, appariva e si proponeva quale argine al degrado morale del Paese, sembra ispirare le azioni e le modalità di protesta dell’Anm.
Da un ordine illuminato più che un voltare le spalle ci saremmo aspettati la capacità di affrontare temi così spinosi con attenzione. Ci saremmo aspettati la cancellazione dello slogan politico a favore del ragionamento approfondito. Le affermazioni frutto di ipotesi e timori non rispondenti a quanto espresso nel testo della riforma (nella quale nessuno parla di sottrarre la giurisdizione al pubblico ministero assoggettandolo all’Esecutivo) dimostrano quanto questa presa di posizione sia fragile. Correttamente si possono esprimere perplessità rispetto all’alea legata al sorteggio ma, per essere credibili, bisognerebbe lasciare spazio a un’analisi corretta e puntuale di quanto accaduto sino ad oggi nel nostro Paese. Il caso Palamara dovrebbe costituire momento di riflessione. In questo senso, forse più che criticare un nuovo sistema e una nuova modalità di approccio, bisognava analizzare quanto accaduto, accettare l’idea che la precedente modalità aveva fallito, e preparare una soluzione.
Una soluzione che esaltasse davvero il merito e non l’appartenenza a una corrente. Forse il primo passo sarebbe stato quello di restituire ai magistrati che lavorano alla clemente sacrificando la propria esistenza ogni giorno (senza preoccuparsi di iscrizioni a correnti e far vita associativa) quei riconoscimenti che meritavano per il proprio lavoro e non per le proprie amicizie. Per tali ragioni ritengo che un confronto serio dovrebbe fare abbandonare la logica della lotta e del conflitto attraverso un reciproco riconoscimento. Del resto, nel 1989 Giovanni Falcone si esprimeva a favore della separazione delle carriere ritenendola necessaria per assicurare maggiore imparzialità e trasparenza nel processo penale e per evitare commistioni e garantire un giudice realmente terzo. Questo era il pensiero di un grande magistrato (pubblico ministero) illuminato che non può non essere condiviso dagli italiani e soprattutto da un avvocato!
(*) Presidente della Camera penale salernitana
di Michele Sarno (*)