Il professore che voleva fare la rivoluzione

mercoledì 15 gennaio 2025


Tutto comincia e finisce con i libri. Franco Piperno li ha letti, scritti, studiati, insegnati. È morto da professore, con il gusto dell’eresia e della provocazione. Era uno che ti guardava e ti spiazzava, perché non ti aspettavi mai quello che stava per dire. Non era prevedibile. Non lo è mai stato.

La sua rivoluzione è partita dalle aule di Fisica, a Roma, quando capì che la scienza non poteva essere neutra e che il sapere era una questione di classe. Marx non bastava più. Non era sufficiente per spiegare il mondo che stava cambiando. Il Capitale andava riscritto, aggiornato, rivisto alla luce della rivoluzione tecnologica. L’operaio massa non era più l’unico protagonista della storia.

Piperno ha cercato di leggere i segni del futuro e qualche volta li ha anticipati. Ha visto la fine della fabbrica fordista quando ancora sembrava eterna. Ha intuito che il sapere scientifico sarebbe diventato forza produttiva. Ha capito che la tecnologia avrebbe stravolto i rapporti di classe.

Era un intellettuale scomodo perché non si accontentava delle vecchie categorie. Le sue letture erano contaminate: Marx e la fisica quantistica, l’operaismo e la cibernetica, la lotta di classe e la teoria del caos. Era troppo raffinato per essere un semplice agitatore e troppo rivoluzionario per essere solo un professore.

Potere Operaio è stata la sua creatura. L’ha fondata con Toni Negri e Oreste Scalzone. Era il 1969 e l’Italia stava entrando negli anni di piombo. Potere Operaio voleva essere la scintilla della rivoluzione. Non era solo un gruppo extraparlamentare, era un laboratorio di idee. Lì si incrociavano operai e studenti, filosofi e tecnici. Si parlava di salario, di autonomia, di rifiuto del lavoro.

La violenza? Non l’ha mai rinnegata. La teorizzava come strumento inevitabile della politica. Non era un’opzione estrema, ma una necessità della lotta di classe. Questa non è stata solo una colpa o un errore intellettuale: è stata una responsabilità morale che ha pesato sulla vita di tanti giovani che lo hanno seguito, credendo che la rivoluzione potesse nascere dal sangue. La sua sofisticata lettura marxista è diventata, nelle mani di chi lo ascoltava, il permesso di uccidere.

Il 7 aprile 1979 lo hanno arrestato. L’accusa era di essere uno dei capi delle Brigate Rosse. Non era vero, non direttamente. Piperno non è mai stato un brigatista, ma le sue teorie hanno nutrito il terrorismo. Era un teorico della rivoluzione, non un soldato, ma le sue parole sono diventate proiettili. Ha scelto l’esilio. Francia, Canada. È tornato solo quando tutto era finito, quando i morti erano già troppi.

Gli anni Settanta sono stati la sua stagione. Li ha vissuti da protagonista e ne è uscito sconfitto. Non ha mai fatto la vittima, questo è vero. Ma non ha mai fatto i conti fino in fondo con le conseguenze delle sue idee. Non si è mai pentito. Non ha mai chiesto scusa a chi ha perso padri, fratelli, amici. Ha continuato a pensare, a studiare, a insegnare, come se il sangue non lasciasse tracce sui libri.

Era un cattivo maestro? Sì, lo è stato. Un maestro brillante che ha insegnato a pensare, ma anche a giustificare l’ingiustificabile. Le sue lezioni raffinate sulla rivoluzione sono diventate, nella testa di tanti ragazzi, un invito alla guerra civile. La violenza teorica si è fatta pratica, e lui non ha mai voluto vedere fino in fondo questo passaggio.

La sua eredità? Non è nei gruppuscoli che ancora si richiamano all’autonomia operaia. Non è nelle Br che lo hanno citato nei loro documenti. È nel suo modo di leggere la realtà, di cercare collegamenti impensati, di vedere oltre le apparenze.

Franco Piperno è morto da professore emerito dell’Università della Calabria. Ha insegnato fino all’ultimo. Ha continuato a studiare il rapporto tra scienza e società, tra tecnologia e potere. Non ha mai smesso di essere curioso, di cercare nuove strade, di provocare.

Era un rivoluzionario anomalo. Un marxista eretico. Un fisico filosofo. Un intellettuale che non si è mai piegato al conformismo. Un uomo che ha sbagliato tanto ma che non ha mai smesso di pensare.

La sua storia è la storia di una generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo e ci ha provato nel modo sbagliato. Ma è anche la storia di un pensiero inquieto, che non si è mai accontentato delle risposte facili.

Ora che non c’è più, resta il suo insegnamento più importante: il dovere di dubitare, di cercare, di non accontentarsi mai delle verità preconfezionate. Anche quando questo ti porta fuori strada, anche quando ti fa sbagliare.

La rivoluzione non è arrivata. Ma le domande che si è posto sono ancora lì, più attuali che mai. Chi controlla il sapere? Chi governa la tecnologia? Quale futuro ci aspetta?
Domande da cattivo maestro. Domande necessarie. Risposte sbagliate.


di Mario Equicola