mercoledì 18 dicembre 2024
Lo scorso 24 novembre si è conclusa la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2024 (Cop29), svoltasi quest’anno a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Le conclusioni cui sono pervenuti gli Stati partecipanti non differiscono dalla solita solfa socialista tinta di verde. I quasi 200 Paesi partecipanti hanno concordato di sostituire il precedente obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 con un nuovo obiettivo di 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Inoltre, si mira a mobilitare almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno includendo finanziamenti pubblici e privati. Non sono stati però stabiliti nuovi obblighi per la transizione dalle fonti fossili, contrariamente alle aspettative. Detto in soldoni (letteralmente): gli Stati devono tassare di più i propri cittadini.
Le reazioni internazionali all’accordo, ciononostante, sono state prevalentemente negative. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha espresso delusione per la mancanza di ambizione, mentre molti rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo hanno denunciato l’accordo come insufficiente e poco ambizioso. La cosa più interessante è forse l’atteggiamento di Paesi come la Cina e l’Arabia Saudita, che hanno ostacolato qualunque progresso significativo sulla riduzione delle emissioni. È interessante perché, sebbene la retorica verde voglia addossare la colpa di tutti i cambiamenti climatici (veri o presunti) al capitalismo occidentale, i principali ostacoli provengono dai Paesi più autoritari e socialisti del mondo. Ciononostante, le soluzioni che si vogliono proporre sono proprio di matrice socialista, tanto che, negli ultimi anni, molte regolamentazioni adottate in ambito climatico (e non solo) da parte di organismi come l’Unione europea non differiscono di molto, ad un’attenta analisi, dalle regolamentazioni attuate in Paesi autoritari come la Cina.
Questa retorica social-ambientalista è talmente pervasiva da essere trasbordata anche nella cultura tradizionalmente vista come conservatrice, come quella cattolica. In apertura della Conferenza, Papa Francesco, per mezzo del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, aveva rilasciato un messaggio all’interno del quale esprimeva preoccupazioni significative riguardo ai risultati raggiunti. “La Cop29 si svolge in un contesto condizionato dalla crescente disillusione riguardo alle istituzioni multilaterali e crescenti tendenze a costruire muri”, scriveva il Papa. Si renderebbe pertanto urgente “una nuova architettura finanziaria internazionale che possa davvero assicurare a tutti i Paesi, specialmente quelli più poveri e quelli più vulnerabili alle catastrofi climatiche, vie di sviluppo sia a bassa emissione di carbonio sia di alta condivisione, che permettano a tutti di raggiungere il pieno potenziale e vedere rispettata la propria dignità. Abbiamo le risorse umane e tecnologiche per invertire la rotta e perseguire il circolo virtuoso di uno sviluppo integrale che sia davvero umano e inclusivo”.
Concetto per se stesso corretto. Peccato che il magistero “green” di Papa Francesco, apparentemente incentrato sulla salvaguardia del creato, appare in realtà come l’accettazione acritica delle agende socialiste promosse dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite. Questo approccio, pur rivestito di motivazioni morali, si rivela in realtà carente dal punto di vista non solo scientifico ma persino economico, oltre a deviare il magistero ecclesiastico dal suo vero compito: custodire la fede e la morale. Le principali proposte di Papa Francesco sul fronte ambientale, come quelle espresse nell’enciclica Laudato si’, trovano origine nelle politiche europee e globali di transizione ecologica, ma trascurano le evidenti lacune scientifiche ed economiche di tali strategie. Il Papa scrive nel messaggio: “I dati scientifici di cui disponiamo non consentono ulteriori ritardi e mostrano chiaramente che la preservazione del creato è una delle questioni più urgenti del nostro tempo”.
È davvero così? Un recente rapporto della Commissione per la crescita e lo sviluppo ha analizzato, per esempio, le conseguenze economiche del Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), l’iniziativa dell’Unione europea pensata per affrontare le emissioni di carbonio legate all’importazione di alcuni prodotti, e che è in fase di prova dall’ottobre 2023. Le aziende europee pagano già una tassa per le emissioni di carbonio che producono quando fabbricano beni. A causa del Cbam, le aziende devono pagare anche per le emissioni causate dai prodotti importati nell’Ue (come cemento, acciaio, alluminio). In questo modo, si vorrebbe evitare che le aziende europee trasferiscano la produzione in Paesi con normative ambientali più deboli, dove non devono pagare per le loro emissioni.
Secondo questo studio, però, l’applicazione di questo meccanismo comporterebbe significative perdite di Pil pro capite, specialmente per le economie di quegli Stati che dipendono da catene di approvvigionamento globali. L’obiettivo del Cbam si traduce in una penalizzazione economica diffusa, senza affrontare efficacemente il problema delle emissioni globali. Soluzioni alternative, come quelle proposte dal Climate and Freedom Accord (Cfa), mostrano che approcci basati su incentivi positivi e libertà economica potrebbero non solo ridurre le emissioni di carbonio, ma anche migliorare il benessere economico. Il Cfa è un accordo internazionale che propone come soluzione ai problemi ambientali e alla povertà una maggiore apertura dei mercati alla concorrenza e all’innovazione e l’introduzione di tagli fiscali molto specifici per incentivare investimenti in tecnologie a basse emissioni. Alla base c’è la convinzione per cui le economie più libere sono anche quelle più pulite e prosperose.
Si è calcolato che un simile approccio avrebbe, nel solo Regno Unito, un potenziale aumento del Pil pro capite superiore a mille sterline. Questa visione evidenzia come il libero mercato, anziché la burocrazia centralizzata, possa rappresentare una risposta sostenibile al cambiamento climatico (a prescindere dalla sua effettiva origine antropica, cosa attualmente ancora dibattuta). In contrasto, Papa Francesco sembra aderire alla visione catastrofista e interventista delle istituzioni globali, trascurando modelli economici che rispettano la libertà e promuovono il benessere senza gravare sulle popolazioni più vulnerabili. Questa impostazione non solo ignora soluzioni alternative, ma rischia di legittimare politiche che impoveriscono le nazioni in nome di un ambientalismo ideologico. La Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto che economia e politica, pur essendo arti rilevanti per l’ordinamento umano, non sono scienze esatte. Pertanto, il loro valore dipende dalla capacità di servire il bene comune in armonia con i principi di fede e morale. Tuttavia, negli ultimi undici anni, il magistero ecclesiastico sembra essersi concentrato quasi esclusivamente su questioni economiche, sociali e ambientali. Il magistero “green” di Papa Francesco non può essere compreso al di fuori del contesto ideologico in cui purtroppo si inserisce. Le politiche climatiche globali promosse da Ue e Onu si basano su modelli economici e scientifici discutibili, che non considerano appieno le conseguenze per le popolazioni più deboli. Allo stesso tempo, il crescente coinvolgimento della Chiesa in queste tematiche rischia di compromettere la sua missione nel mondo, riducendola a una semplice ong al servizio delle peggiori agende socialiste di tutto il globo.
di Gaetano Masciullo