Considerazioni sulla vittoria di Donald Trump

lunedì 25 novembre 2024


La vittoria dell’atipico candidato presidenziale repubblicano Donald Trump rientra nel paradosso che contraddistingue la società americana, contemporaneamente idealista e pragmatica.  

Sicuramente considerazioni economiche − relative al gettito del fisco, all’applicazione di dazi doganali, all’inflazione e alla politica monetaria − hanno fortemente pesato sul voto, ma hanno anche influito l’insoddisfazione e la disapprovazione nei confronti di una minoranza militante e chiassosa che da tempo s’impone sulla maggioranza innalzando il vessillo del “politically correct”, della “cancel culture” e di sfrenate pretese “Lgbt”. Va, altresì, aggiunta la preoccupazione causata dal senso d’insicurezza attribuibile al percepito incremento di fenomeni di delinquenza comune e d’immigrazione irregolare.

In questo contesto è significativo notare che non si tratta unicamente di un vittorioso suffragio tradizionalmente e, in parte, retrivamente conservatore genericamente rappresentato dalla sigla Wasp (ovvero bianco-anglosassone-protestante), ma include il cresciuto sostegno al Partito Repubblicano proveniente dalle minoranze ispaniche ed afroamericane o comunque di colore, nonché da comunità di immigrati recentemente naturalizzatisi americani. Parimenti significativo è il fatto che non ha influito il ruolo svolto a favore di Kamala Harris, candidata del Partito Democratico, da parte del milieu radical-chic capillarmente presente nel mondo dello spettacolo ed anche in ambienti universitari.

Neppure la scarsa raffinatezza di espressione dimostrata, almeno sinora, dal president-elect Trump ha sconcertato quel notevole settore della popolazione proteso, infatti, ad associare un certo linguaggio con la malintesa figura di “uomo forte”, mentre molti altri elettori, pur non attratti da atteggiamenti sgarbati, hanno sorvolato su questo aspetto considerandolo retorico e sovrapponendovi l’auspicato raggiungimento dei fini sostanziali promessi. Del resto, negli Stati Uniti la campagna elettorale, particolarmente quella presidenziale, storicamente non esclude colpi “bassi”.

Lampante conferma dell’umore dell’elettorato è in effetti dimostrato dal fatto che il candidato repubblicano ha non solo conquistato un ragguardevole margine nel voto espresso dall’Electoral College, intrinseco al sistema federale creato dalla Costituzione del 1787 e basato sul differenziato peso attribuito ai singoli Stati dell’Unione, ma ha contemporaneamente ottenuto la maggioranza del voto popolare complessivo. Inoltre, il Partito Repubblicano ha raggiunto la maggioranza in entrambe le camere del Congresso, ovvero il ramo legislativo federale.

Per contro, dalla sponda europea dell’Atlantico non è mancata da parte di noti esponenti della saggistica, del giornalismo e della politica l’attribuzione di fascismo nei confronti di Donald Trump e del suo elettorato, il tutto asseritamente riconducibile ad una “democrazia malata” ed alla “fine della democrazia”. Ma qui si dimentica che, almeno dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, tanto il fascismo quanto il comunismo sono invisi anche ai più spinti esponenti conservatori e progressisti statunitensi.

Incerto e preoccupante è, piuttosto, l’effetto che la predisposizione neoisolazionista della presidenza Trump, una volta insediata il 20 gennaio 2025, possa avere sullo scambio commerciale internazionale e, in modo ancor più infausto, sulla compattezza, operatività e credibilità dell’Alleanza Atlantica e quindi sulla sicurezza dell’Italia e del resto dell’Europa ad alto sviluppo democratico.

Mentre è estremamente improbabile che il neoeletto intenda, o effettivamente possa in presenza dei pesi e contrappesi costituzionali e politici statunitensi, sottrarre Washington dalla Nato, si prospetta allo stesso tempo il concreto rischio di una sostanziale riduzione nell’apporto d’Oltreoceano, che rimane indispensabile – piaccia o meno la ormai quasi ottantenne “stampella” americana – in assenza di un cosiddetto “esercito europeo” e di una compatta politica estera e di difesa riconducibile all’Unione Europea, caratterizzata da limitata coesione politica o frazionismo fra Paesi membri e pure all’interno degli stessi.

Come drammaticamente dimostrato dall’esecrabile aggressione della Federazione Russa, autocraticamente retta da Vladimir Putin, ai danni dell’Ucraina e del suo coraggioso popolo, la fine dell’ultraquarantennale Guerra Fredda non ha prodotto l’auspicata pace duratura in Europa ed il tranquillo perseguimento dei legittimi interessi occidentali a livello mondiale, contemporaneamente minacciati dalle ambizioni espansionistiche non solo russe – che verranno rafforzate e incoraggiate se dovesse soccombere, ingiustamente e senza ausilio occidentale, l’Ucraina – ma anche cinesi e nordcoreane, e dagli sconvolgimenti in Medioriente.

Le alleanze, particolarmente la Nato (fra l’altro compatibile e di ausilio ai fini fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, incluso l’Articolo 51 sul diritto alla difesa individuale e collettiva), non sorgono con motivazioni altruiste, ma rispecchiano il perseguimento di egoismi nazionali condivisi dai Paesi membri.

In questo contesto non ha torto Trump, nonostante i suoi sgradevoli o quantomeno iperbolici toni, quando fortemente lamenta la promessa e altrettanto mancata assegnazione minimale del due percento del Pil ai bilanci della Difesa da parte di singoli alleati atlantici. Tuttavia, in quanto un’alleanza esiste nel comune interesse dei membri, è fatale che lo Stato o gli Stati parte più potenti si assumano una maggiore proporzione del peso. Sarebbe quindi opportuno un esercizio di pazienza da parte del più forte ed un esame di coscienza da parte degli inadempienti.

In quanto la presidenza Trump è alle porte ma ancora in fieri, è auspicabile e possibile che determinati fattori, quali la presenza di elementi maggioritari repubblicani rispetto all’atipicità del neoeletto, il sistema di pesi e contrappesi del sistema federale ed insormontabili esigenze internazionali, precludano il più oscuro degli scenari.

Per quanto riguarda specificamente l’Italia – la quale nel corso della Guerra Fredda ha costituito unicamente una componente fondamentale del fianco sud della Nato (mentre il fronte percorreva lungo i confini con l’allora Germania Est e Cecoslovacchia) ed oggi più significativamente costituisce un fronte vero e proprio fra i plurimi nel mutato assetto globale – è particolarmente auspicabile che rimanga saldo il legame transatlantico rappresentato dalla Nato.

In ogni caso è ora, nel suo interesse e in quello del mondo libero, che finalmente l’Europa di tradizioni occidentali si avvii, pur mantenendo rapporti di fattiva amicizia con gli Stati Uniti, a dotarsi di un proprio sistema di difesa credibilmente autonomo.

(*) Segretario generale dell’Albo nazionale Analisti Intelligence, è stato Senior Foreign Law Specialist del Congresso degli Stati Uniti, docente di scienze politiche nella Georgetown University di Washington e consulente di sicurezza e intelligence presso commissioni parlamentari statunitensi e italiane


di Vittorfranco Pisano (*)