Khomeinismo giudiziario: garantismo e riformismo per evitarlo

venerdì 18 ottobre 2024


Da più parti ci si interroga sul se, sul come e sul quando un ministro può (o non può) essere condannato penalmente per un atto tipico del suo dicastero. Il caso Salvini ha attualizzato ancora di più l’urgenza di riflettere su queste questioni giuridico-costituzionali. Facciamolo con elementi scientifico-giuridici alla mano, al di là di ogni populismo giustizialista.

La responsabilità giuridico-penale dei ministri in ogni epoca storica suscita interrogativi e apre delicati dibattiti sul significato giuridico dei princìpi di uguaglianza, da un lato, e di separazione dei poteri dello Stato, dall’altro lato. Le norme sulla responsabilità ministeriale possono incidere in modo critico sugli stessi equilibri esistenti tra i distinti e separati poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; in ragione di ciò spesso in tema di processi a carico dei ministri si discorre di giustizia politica.

In Italia la Costituzione repubblicana del 1948, nella parte in cui stabilisce le regole generali sul funzionamento degli organi del potere esecutivo ed in particolare nell’articolo 95, comma secondo, sancisce che i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei singoli ministeri. Parlando di responsabilità penale dei ministri, così, occorre chiedersi cosa siano i reati ministeriali e quali siano le ragioni situate alla base delle procedure formali prescritte per il loro accertamento.

I reati ministeriali sono reati commessi dai membri del potere esecutivo. Alcuni ordinamenti giuridici sottopongono questi reati a forme di giustizia speciale, di tipo politico o misto.

Mentre in Francia dal 1993 questi reati particolari sono sottoposti alla giurisdizione della Corte di giustizia della Repubblica, composta da 12 parlamentari e tre magistrati, in Italia l’articolo 96 della Costituzione repubblicana allo stato sancisce quanto segue: “Il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.

La procedura da seguire per i reati ministeriali è disciplinata dalla legge di revisione costituzionale numero 1 del 1989, e dalla legge numero 219 del medesimo anno.

Un eventuale caso riguardante i crimini dei ministri nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali sarebbe di competenza del tribunale ordinario, che in queste circostanze opererebbe come “tribunale dei ministri”.

L’espressione “tribunale dei ministri” non è presente nei testi normativi, ma è utilizzata quasi per consuetudine, in ragione della particolare composizione dell’organo giurisdizionale investito di una questione legale che coinvolge un ministro o il presidente del Consiglio dei ministri a causa dello svolgimento delle proprie attività istituzionali. Questo tribunale non è un tribunale speciale, ma è qualificabile come una sezione specializzata del tribunale ordinario. Esso è costituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio, in ragione del luogo di commissione del reato ministeriale.

Entro 90 giorni dal ricevimento degli atti riguardanti un fatto o un atto ministeriale, compiute le indagini preliminari e sentito il pubblico ministero, il “tribunale dei ministri” deve decidere se procedere oppure archiviare l’indagine con un decreto non impugnabile. Se esso sceglie di procedere, trasmette gli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica per la loro immediata rimessione al presidente del ramo del Parlamento competente per legge.

Il presidente del ramo parlamentare competente invia gli atti così ricevuti alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, secondo le prescrizioni del regolamento della camera interessata. La Giunta riferisce all’assemblea della stessa camera con una relazione scritta, dopo aver ascoltato eventualmente i soggetti interessati. A partire dal momento della consegna degli atti al presidente della camera competente, l’assemblea si riunisce entro 60 giorni e nello stesso termine essa può negare l’autorizzazione a procedere a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con una valutazione insindacabile. La negazione dell’autorizzazione a procedere è legittima se la maggioranza assoluta ha ritenuto che il ministro abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. La funzione della camera legislativa non è giurisdizionale (nemmeno in senso lato), bensì di autorizzazione a procedere, con un vaglio costituzionale che ben si distingue dal tipico sindacato giurisdizionale.

Se l’assemblea decide di concedere l’autorizzazione a procedere, essa rimette gli atti al “tribunale dei ministri” per la continuazione del procedimento sul reato ministeriale.

Questo appena illustrato è il quadro giuridico attualmente in vigore nell’ordinamento italiano, ossia il prodotto dell’ultimo sforzo evolutivo in materia di giustizia politica e accertamento processuale dei reati dei ministri.

Prima dell’entrata in vigore della legge di revisione costituzionale numero 1 del 1989, l’articolo 96 della Costituzione statuiva che per i reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri potessero essere messi in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, ossia da un organo complesso che normalmente è titolare di altre tipologie di funzioni. Una volta messi in stato d’accusa, il giudizio veniva attribuito alla Corte costituzionale e non al giudice ordinario. Come si può notare, la portata sistematica del cambiamento intervenuto a partire dal 1989 è molto rilevante.

I limiti del meccanismo istituzionale precedente alla legge di revisione costituzionale del 1989 divennero oggetto di riflessioni e rimeditazioni nell’opinione pubblica, oltre che nei lavori scientifici dei giuristi, a causa di quello che è ricordato come lo scandalo Lockheed del 1977. Questo scandalo riguardò gravissimi casi di corruzione avvenuti negli anni Settanta in Italia, Paesi Bassi, Germania occidentale, Giappone. L’azienda statunitense Lockheed Martin aveva pagato alcune tangenti a politici e militari stranieri per vendere ai sopra menzionati Stati esteri i propri aerei militari. In Italia, molti soggetti furono accusati di aver intascato cospicue tangenti per favorire appunto l’acquisto di aerei da parte del Ministero della Difesa italiano. Furono quindi posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune e poi processati in Corte costituzionale Mario Tanassi, all’epoca dei fatti ministro della Difesa, Mariano Rumor, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio dei ministri, e Luigi Gui, all’epoca ministro per l’Organizzazione della Pubblica amministrazione e per le Regioni. Di questi, soltanto Tanassi venne condannato dalla Corte costituzionale, in composizione integrata, a due anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. La sentenza di condanna, che comminò pure la decadenza dal seggio parlamentare, fu ratificata da un voto della Camera dei deputati nell’esercizio di una autodichia speciale, dunque di una giustizia autonoma e speciale. Tanassi scontò quattro mesi di carcere.

Il dibattito che in quel periodo si sviluppò in Italia riguardava la corruzione non soltanto personale dei soggetti coinvolti, ma anche il malcostume e alcuni meccanismi deviati della partitocrazia.

Di fronte a quella situazione, nel marzo 1977 l’onorevole Aldo Moro della Democrazia cristiana, nei lavori della seduta parlamentare comune per la decisione dello stato d’accusa, aveva affermato che: “Una volta tanto non siamo legislatori, ma giudici, intendo giudici non in senso tecnico-giuridico, ma politico”, e che “la valutazione… non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa”.

In quella stagione politica italiana si sentiva il bisogno di un cambiamento che riguardasse le regole procedurali per esercitare una giustizia nella politica; e non più una giustizia della politica sulla politica stessa. Siccome bisognava tener conto della libertà di azione governativa e della teoria che qualificava l’atto politico come un atto tendenzialmente libero nel fine, nella riforma costituzionale vi furono dei compromessi tra le distinte esigenze.

La legge costituzionale numero 1 del 1989, infatti, ha riscritto l’articolo 96 della Carta costituzionale nella versione sopra illustrata, prevedendo una semplice autorizzazione parlamentare a procedere come filtro per trasmettere un caso di reato ministeriale alla giurisdizione ordinaria, secondo le particolari regole sulla competenza già ampiamente descritte.

È ammirabile lo sforzo di riformare la materia dei reati ministeriali, illuminandola con il principio fondamentale di uguaglianza formale di fronte alla legge per tutti i cittadini. Si è cercato di rendere il più possibile ordinaria la procedura di accertamento e persecuzione dei reati commessi dai ministri, che sono altissimi operatori del potere governativo e politico dello Stato.

C’è chi critica la conformazione attuale degli equilibri tra i diversi poteri statuali. Una parte delle critiche proviene dalle correnti conservatrici, le quali vorrebbero mantenere l’atto governativo come un atto assolutamente insindacabile dal potere giudiziario. Un’altra parte delle critiche, invece, proviene dalle correnti di pensiero che vogliono una legalità rigorosamente e meccanicamente connessa al valore dell’eguaglianza, ed in ragione di ciò propongono l’eliminazione del filtro dell’autorizzazione parlamentare.

Le visioni più in linea con l’attuale assetto costituzionale auspicano il mantenimento dell’attuale regime giuridico in materia, perché esse sono preoccupate per gli eventuali attacchi che i ministri potrebbero ricevere dai propri avversari politici, attraverso l’ordinario strumento giudiziario. Le posizioni più moderate, pertanto, restano fiduciose sull’utilizzo del buon senso da parte dei ministri, con la loro facoltà di rinunciare o non rinunciare al trattamento speciale ad essi costituzionalmente riservato. Occorre sottolineare che il buon senso non deve essere automaticamente e necessariamente collegato ad un atteggiamento di rinuncia al filtro parlamentare. Ogni fatto è diverso dagli altri; ogni situazione umana è diversa dalle altre.

Se si studia l’ordinamento giuridico italiano precedente all’età costituzionale repubblicana, si può osservare una più radicale separazione e diversificazione dei procedimenti a carico dei ministri, rispetto alle regole processuali ordinarie prescritte per tutti gli altri cittadini.

Da questa breve esposizione sugli strumenti processuali di esercizio della giustizia sulla politica, unitamente allo studio che sopra si è esposto sui giudizi a carico dei ministri davanti all’Alta Corte di Giustizia, è possibile ipotizzare alcune modeste considerazioni generali. Si può dare per certa la sussistenza di un’esigenza di prudenza nel perseguire i reati ministeriali. Questa prudenza è richiesta dalla natura stessa della delicata funzione di governo di uno Stato. Si deve tener conto da un lato dell’esigenza di evitare una politicizzazione in senso stretto dell’attività giudiziaria, e dall’altro lato dell’esigenza di garantire a tutti i cittadini il rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione, tra cui i diritti e le libertà così come i doveri e l’ordine pubblico, a sua volta – quest’ultimo – anticamera di ogni garanzia liberale nello Stato di diritto.

La delicata particolarità della tematica dei reati ministeriali necessita di altrettanto particolari accorgimenti procedimentali, già sul piano legislativo della loro ideazione.

Più si va indietro nel tempo e più le fonti legislative immortalano organizzazioni istituzionali in cui le risposte processuali tendevano a creare appositi organi in una sorta di autodichia speciale, dunque in una giustizia autonoma e speciale. Si può notare questa tendenza istituzionale nella costituzione dell’Alta Corte di Giustizia all’interno dello stesso Senato del regno, durante la vigenza dello Statuto albertino. Con la creazione di organi speciali, e non soltanto specializzati, e per di più anche interni al mondo politico, però, si rischiava una assolutizzazione della logica autoreferenziale di autodichia penale, contro ogni esigenza di uguaglianza davanti alla legge.

I risultati di questa autodichia penale e speciale potevano dimostrarsi favorevoli o sfavorevoli per i ministri, a seconda delle correnti di volta in volta dominanti nel Senato costituito in Alta Corte di Giustizia.

In seguito, con l’avvento del costituzionalismo repubblicano nella metà del XX secolo in Italia, si è cercato di dare risposte più garantiste per i ministri processati. Si è cercato al contempo di costruire un sistema rispettoso del contenuto fondamentale del principio di uguaglianza davanti alla legge. La tendenza attualmente maggioritaria nelle rimeditazioni sulla procedura d’accertamento e persecuzione dei reati ministeriali è quella di ideare risposte certe, capaci di staccarsi dalla logica autoreferenziale di specialità assoluta.

Sui reati ministeriali, oggi e per il futuro, potrebbe essere meditata una disciplina equilibratamente riformista di specialità minima necessaria: idonea a coniugare il rispetto della separazione dei poteri statuali con il cardine giuridico dell’uguaglianza tra i cittadini, nel processo penale.

Lo strumento giudiziario, in uno Stato di diritto con poteri separati e diversi, non può mai diventare khomeinismo giudiziario. Nel khomeinismo giudiziario diritto e facoltà, corti e tribunali, codici e culti ideologicamente politicizzati si confondono e si fondono, entro le cornici di fattibilità di un formalismo procedurale colorabile da contenuti sostanziali confusi, o confondibili.

L’Italia è la patria di tradizioni giuridiche e giudiziarie di spessore, e anche su queste questioni delicatissime sapremo trovare soluzioni più chiare e più garantite, senza mai piegare il nostro formalismo alla confusione, senza mai dismettere l’elemento essenziale del nostro Stato di diritto: ossia la certezza del diritto nella vita di ogni persona, ministri inclusi.


di Luigi Trisolino