Ezio Vanoni e la montagna incantata

martedì 30 luglio 2024


Trovarsi in Valtellina e visitare Sondrio, Morbegno, Tirano, Bormio, Caspoggio e altri Comuni, significa imbattersi ovunque in Via Ezio Vanoni, il ministro delle Finanze cui si deve la legge fiscale del 1951, che proveniva appunto da Morbegno. Vanoni era un rispettabile economista cattolico animato dalla volontà di non negare la libera iniziativa ma di collegarla al bene sociale, anche introducendo forme di regolazione del mercato nel suo stesso prodursi, per esempio favorendo le imprese a partecipazione statale, le cooperative e via discorrendo. Su un altro piano, quello liberale, più o meno negli stessi anni, di fronte alla definizione di “economia sociale di mercato”, dovuta all’ordoliberale tedesco Wilhelm Röpke (Ordo era il nome di una rivista liberale tedesca fondata nel 1936) e adottata da vari partiti liberali europei, Luigi Einaudi sostenne che il riferimento sociale era del tutto inutile perché, in ogni versione liberale, il mercato è e rimane centrale ed esso, come sottolineava anche Friedrich von Hayek, è un luogo di spontaneità relazionale e, dunque, intrinsecamente sociale.

Naturalmente ciò che l’aggettivo sociale implicava, soprattutto nella versione cattolica, andava in realtà, molto più in là di una semplice allusione linguistica e socio-economica. Come nel caso del cattolico Vanoni, anche in alcune versioni neoliberali, per non parlare, ovviamente, delle varie culture della sinistra laica, l’aggettivo in questione invocava finalità decisamente sostanziali, identificate nel sostegno alle fasce deboli della società e, inutile dirlo, nell’auspicio di un crescente intervento dello Stato nell’economia reale del Paese. Nonostante lo stimolo, in qualche misura keynesiano, operato da alcuni interventi statali come nel caso dell’energia, va tuttavia sottolineato che, in realtà, l’Italia non avrebbe conseguito alcun boom economico, con conseguente aumento delle entrate statali, senza la larga diffusione dell’iniziativa privata fondata sulla libertà delle decisioni di investimento e sul rischio assunti come prerogative irrinunciabile della libera imprenditorialità.

Nel 1954 Vanoni, ministro del Governo Scelba, varò lo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64, pensato per promuovere la crescita economica e, appunto, sociale del Paese con particolare riguardo al Sud. Il termine ‘schema’ appariva peraltro ambiguo e pare essere stato studiato per evitare l’accusa, che peraltro vi fu da parte liberale, di voler puntare su un vera e propriaeconomia pianificata, già allora invisa, sulla scorta dei fallimenti delle pianificazioni del mondo del socialismo reale, alla gran parte dei politici non comunisti e a buona parte della stessa opinione pubblica. Al di là del non proprio elevato successo dello schema di Vanoni, va osservato che, negli anni successivi, si fece largo l’idea di moderare l’istinto pianificatore delle sinistre attraverso l’adozione del più mite concetto di programmazione. Di fatto, l’idea della programmazione era però un derivato della pianificazione e, a parte dettagli connessi ai conti di breve periodo, condivideva con la pianificazione la fissazione di obiettivi concernenti le variabili macro dell’economia di medio e lungo termine da realizzarsi con azioni e interventi preordinati dello Stato.

Insomma, il libro dei sogni come la definì Amintore Fanfani. A distanza di tanti anni si può dire che sia l’idea della pianificazione sia quella della programmazione soffrivano di una pesante, talvolta esplicita, remora illiberale, costituita dall’insopportazione da parte del mondo cattolico, ma anche di parte della sinistra, dell’evidente primato, in fatto di creazione di ricchezza, dell’iniziativa privata. L’immagine utopica, perché di questo si trattava, di un sistema economico disponibile a farsi regolare da regolatori centrali, casti, puri e ispirati dal solo perseguimento della giustizia sociale appariva a molti come perfettamente razionale e, comunque, giusta mentre la critica liberale metteva in guardia dalla sicura formazione, a livello statale, di una burocrazia dominante, legata al potere e, magari, corruttibile. D’altra parte, economisti non liberali bensì liberal come John Kenneth Galbraith, giungevano a sostenere che la pianificazione dell’economia era cosa fattibile perché, in fondo, tutte le imprese già sono pianificate.

Una solenne sciocchezza che collide gravemente con la realtà e con uno dei postulati fondamentali della teoria dei sistemi poiché sommare o, peggio, pretendere di sintetizzare più piani locali non garantisce in alcun modo che il piano globale che ne uscirà ottimizzi il raggiungimento di qualsivoglia obiettivo. In altre parole, porre in relazione più sistemi fra loro eterogenei dà sempre luogo a qualcosa di nuovo e imprevedibile che nessun ricorso alla iper-razionalità pianificatoria può anticipare. A meno che il gestore centrale stabilisca d’autorità un fine e disponga dei mezzi per disincentivare anche con la forza tendenze diverse da quelle fissate dal piano, provocando peraltro una sicura perdita economica, ossia il male comune. D’altra parte, la più clamorosa smentita dell’ideologia pianificatoria, che certamente uomini come Ezio Vanoni non potevano prevedere mentre era ed è tuttora implicita nella fisionomia aperta e dinamica del liberalismo, è davanti a noi in tutta evidenza da almeno trenta anni. In questo lasso di tempo nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe avuto successo nel pianificare azioni di lungo termine micro o macro economiche a causa della prorompente dinamica tecnologica che ha indotto continue novità di tale portata da rendere antiquata qualsiasi immagine del futuro, elemento essenziale di ogni piano o programmazione. Il sistema economico, o socio-economico, che avevano in mente anime buone come Vanoni era concepito come fosse qualcosa di massiccio, stabile e sempre uguale a se stesso come una montagna della Valtellina e dunque passibile di aggiustamenti e abbellimenti.

Ma la realtà stava mutando a loro insaputa per poi esplodere in mille novità inaspettate, e certo non programmate, che una attenta interpretazione della tipologia delle innovazioni di Joseph Alois Schumpeter avrebbe forse potuto rendere più comprensibili inducendo a una maggiore cautela e a una più realistica razionalità, limitando gli interventi dello Stato a poche, e però sicure ed efficienti, misure di contenimento monetario e del debito pubblico, nonché di garanzia della concorrenza. In conclusione, assieme al ricordo e al rispetto intellettuale per un uomo di autentica vocazione cattolica, e sociale nel senso più sincero del termine, va sottolineato che le premesse culturali da cui muoveva Vanoni non possono trovarci d’accordo. Piuttosto, sono maggiormente accettabili, se proprio dobbiamo inchinarci davanti all’aggettivo sociale, la sensibilità di Einaudi o il pessimismo di Röpke col suo richiamo, giustissimo, alla dimensione morale che il mercato, insieme, promuove ed esige per funzionare al meglio. Ma si tratta di una questione per risolvere la quale nessuna ideologia potrà mai indicare la strada più efficace salvaguardando, insieme, la libertà e la diversa inclinazione umana nei riguardi dei principi morali.


di Massimo Negrotti